Di Fazio Antonio

Risorgimento e antirisorgimento nel Lazio meridionale (3)

di Antonio Di Fazio
Allegoria del Risorgimento

 

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Fondi antica. Palazzo Baronale

A Fondi si svolgeva da tempo una feroce contesa per il controllo dell’ amministrazione comunale, cosa che significava allora mettere le mani sulle terre demaniali, fra schieramenti per i quali il riferimento al quadro politico generale del Regno ma anche italiano era solo un fatto di etichetta: lo dimostra ampiamente la particolare vicenda che oppose Giovanni Sotis, intellettuale conservatore e lealista, e Giuseppe Amante, sindaco ‘liberale’.
In un feroce libello – ma pubblicato solo dopo l’arrivo dei Piemontesi a Fondi – questi  accusò il Sotis di reazionarismo filoborbonico, pensando con questo di impedirne la partecipazione alla tornata elettorale, etc.
Nel corso del semestre ‘liberale’ ivi la lotta si accentuò, dando vita non solo alla contesa fra legittimisti e liberali ‘risorgimentali’ che dilaniò tante altre città del Regno delle Due Sicilie, ma anche alla violenta ribellione di Giuseppe Conte, originata proprio da atti persecutori compiuti – come già detto – dal suddetto sindaco ‘liberale’: dopo aver partecipato per qualche tempo alla difesa di Gaeta, il Conte formerà una sua banda continuando, in accordo con il centro romano, la sua lotta non tanto contro gli occupatori piemontesi, quanto contro i nuovi galantuomini, contro i quali realizzò nell’ottobre del ’61 l’azione più violenta, uccidendo nei pressi di Fondi – pur dopo averne ottenuto il riscatto –  Eliseo Altieri, dirigente del locale Ufficio del Registro, Gaetano Loffredi esponente del nucleo di risorgimentali di Terracina e il canonico pure terracinese Luigi Bianchi, grande figura di risorgimentale che aveva raggiunto i garibaldini e partecipato alla battaglia del Volturno.

Nei primi di novembre 1860, nei giorni di movimento di truppe borboniche (in ritirata verso Terracina) e piemontesi, queste comandate dal gen. De Sonnaz, l’Amante scrisse e stampò un retorico indirizzo inviato a Vittorio Emanuele II, che lui già proclamava con molto anticipo “Re d’Italia”, nel quale unitamente “a questo popolo, che a me si è ristretto” chiedeva la liberazione dalla tirannia borbonica e di “rientrare sotto quello scettro glorioso, a cui tutta Europa civile fa plauso gioiosamente ed ammira”.

Maratea Castello. Santa Caterina (Monte San Biagio). BN

Maratea Santa Caterina (Monte San Biagio). Ruderi del Castello

A Monte S. Biagio (allora Monticelli di Fondi) si vivevano riflessi degli eventi di Fondi, cui i monticellani erano legati da tempo per la contesa comune per le terre affidate agli Enti di Bonifica e quelle contestate al feudatario.
In questo periodo il suo territorio – posto al confine fra i due Stati –  fu teatro delle scorribande e dei conflitti del ‘brigantaggio’, in particolare della banda ‘Chiavone’. Anche qui il sindaco Biagio Bove, legittimista, si conquistò però fama di liberale e ‘risorgimentale’. Per questo, pare, il 3 maggio 1861 il paese subì un rapido quanto feroce e devastante assalto da parte della banda ‘Chiavone’, che portò all’uccisione del sindaco.

Ponza Porto. Mattei

A Ponza furono momenti difficili…. La storia moderna di Ponza ebbe inizio praticamente da un decreto di Carlo III di Borbone, che vi inviò le prime sessanta famiglie da Ischia, alle quali assegnò altrettanti lotti di terreno nell’isola con esenzione trentennale dalle imposte.
Il primo re napoletano amava quelle isole, perché avevano costituito feudo personale dei Farnese, e per ultimo erano appartenute alla regina madre, Elisabetta Farnese, con la quale quella famiglia si estinse.
In seguito i successori potenziarono le strutture civili (porto, chiese, abitazioni, etc.) e l’economia tanto di Ponza che di Ventotene  dando forte impulso alla pesca, specie del corallo. Per questo prima con l’arrivo dei Francesi agli inizi del XIX secolo, poi al momento delle breve ma violenta incursione piratesca di Pisacane nel giugno del 1857, e ancora nel 1860 la popolazione ponzese rimase fedele ai Borbone.

Nel corso dell’assedio a Gaeta le isole ponziane subirono il blocco da parte della flotta piemontese, che nelle insenature dell’isola si ricoverava in momenti di necessità.
Ma ugualmente i ponzesi mostrarono forte lealtà alla casa regnante. In particolare nei lunghi mesi dell’assedio, «quando i pescatori ponzesi sfidarono ogni notte il blocco navale piemontese per approvvigionare Gaeta assediata di vettovaglie e pesce fresco».

Con l’Unità le isole ponziane subirono un lungo periodo di abbandono, divenendo quasi solo luoghi di ‘bagno penale’. La vita nelle isole intristì. I ponzesi impararono la dolorosa via dell’emigrazione.

Terracina
Pianta prospettica di Terracinai proveniente da: “Theatro delle città d’Italia con nova aggiunta” di Francesco Bertelli pubblicato a Padova nel 1629

A Terracina si ebbe chiara conferma, dopo il caso della battaglia al Garigliano, dell’importanza decisiva del quadro politico europeo; ai primi di novembre lì si rifugiarono la gran parte delle truppe napoletane in ritirata (al comando del generale Ruggeri), per essere ospitate dal Papa; nei pressi di Terracina arrivarono il giorno dopo (6 novembre) il generale De Sonnaz con le sue truppe, inviato all’inseguimento dei borbonici, e la piccola ma agguerrita flotta dell’ammiraglio Albini.

Un’azione congiunta dei due ufficiali piemontesi avrebbe loro consentito l’occupazione di Terracina, avamposto dello Stato pontificio. Ma Napoleone III impose il rispetto dell’indipendenza dello stato del Papa, e tutto si giocò su un compromesso: i Piemontesi si sarebbero allontanati, mentre le truppe francesi del Goyon provvedevano a disarmare i napoletani, cosa che risultava gradita anche al governo di Roma.
Qualche settimana dopo – a sentire una cronaca del “Corriere Mercantile” del 6 dicembre – al tentativo di occupazione di Terracina provato dal De Sonnaz, che eseguiva un preciso ordine del Cialdini occasionato dagli intrighi che lì si imbastivano da parte di comitati borbonici e papalini per appoggiare la resistenza popolare contro i Piemontesi nelle terre di confine, seguirono le vibrate proteste del Goyon che minacciava un’azione di forza contro gli ‘Italiani’, costringendo il De Sonnaz al nuovo ritiro al di là del confine di Portella. Ma i Francesi si impegnarono ad impedire che la città operasse nell’appoggio alle azioni di resistenza e brigantaggio.
E, si sa, lo fecero anche bene contribuendo in modo decisivo a contrastare le imprese della banda di ‘Chiavone’ Alonzi, e alla cattura di numerosi briganti della zona di frontiera, come il fondano Giuseppe Conte, etc.

Questo vario movimento delle truppe piemontesi ai confini dei due Stati dette impulso a Terracina e nelle terre limitrofe rientranti nello Stato pontificio a movimenti politici ed effimere prese di posizione da parte dei pur sparuti gruppi di ‘liberali’, che si spingevano spesso a formare comitati provvisori, operando a favorire la ‘rivoluzione’.
In particolare nei primi del novembre, alla notizia dell’avanzata del De Sonnaz oltre il confine, si costituì spontaneamente un comitato «per accogliere festosamente i soldati italiani», dice Bianchini, altro fervente risorgimentista che chiama già “italiani” i soldati di un esercito che stava mettendo in breccia altri soldati della penisola, ma sfortunatamente napoletani e meridionali.
Ma i suoi componenti più compromessi – peraltro tutti appartenenti a famiglie fra le più influenti di Terracina, “per censo e per posizione sociale” (Fatigati, Matthias, Sarti, Lama, Lepri, Venditti…; tra essi anche popolani e modesti artigiani, come Vincenzo Cicconi, Ernesto Saporiti, Alessandro Perugini), visto il repentino ritiro delle truppe piemontesi guadagnarono anch’essi il confine dell’Epitaffio rifugiandosi a Fondi e Formia, dove rimasero fino al 1870.

Terracina 1851

Terracina nel 1851

Ma il Bianchini ha opportunità di fornire una disamina un po’ più completa dei rapporti sociali ed economici esistenti all’epoca nella città, ponendo in risalto il forte dissidio che si era da tempo creata fra i possidenti agrari e la potente famiglia Antonelli che allora, all’ombra del cardinale Giacomo, l’influente Segretario di Stato di Pio IX, speculavano sul commercio del grano, di cui potevano monopolizzare i traffici, utilizzando la protezione e le manovre poco corrette del potente congiunto, con cui  escludeva e batteva ogni concorrenza. I possidenti terracinesi, che costituivano la nuova classe dominante, era sempre stata ligia al potere pontificio, avverte lo storico terracinese: ma questo dissidio li portò in gran numero verso l’opposizione.

Scrive il Bianchini che proprio per tali soprusi, fra i proprietari terrieri cominciò a serpeggiare il malcontento anche contro il regime papale che li tollerava. «E ciò che non aveva raggiunto la propaganda di tanti apostoli dell’unità d’Italia ed il sangue di tanti martiri… l’ottenne l’opera poco scrupolosa del cardinale Antonelli: tra i “signori”, cioè, che, come è comprensibile, per la difesa dei loro interessi sono generalmente tenaci conservatori, si diffuse uno stato d’ insofferenza verso il regime chiesastico, e si attese con impazienza la fine di esso…».
Chiaro esempio di come anche altrove, compresa la zona del gaetano di cui trattiamo, si formassero gli orientamenti politici della classe egemone, di come da un giorno all’altro si potesse diventare ‘liberali’ e risorgimentali.

Da: Annali del Lazio meridionale, a.XI, n.1 – Giugno 2011, pp. 59-78

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