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Nel giorno della memoria

di Enzo Di Giovanni

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Quanto le nuove generazioni sanno di quel periodo storico?

Non mi riferisco alla Storia, quella la apprendiamo nelle scuole. Oggi celebriamo il giorno della memoria.
Ma la memoria, appunto, la si coltiva in pieno nelle vicende quotidiane di uomini e donne, nel loro sacrificio, che comprendeva non solo rinunce e sofferenze ma la consapevolezza continua di tenere appeso ad un filo il bene più prezioso, la vita.

Questi i pensieri che mi hanno spinto a rileggere dopo qualche anno “Alba Spina – una vita per un ideale” di Silvia Delzoppo. E non solo per i riferimenti a Ponza, dove Alba fu confinata e di cui ha lasciato testimonianza, ma proprio per l’alto spessore morale della sua esperienza. 

Quello del confino politico, di cui ci siamo occupati spesso su Ponza Racconta, e della Resistenza in genere è un periodo storico ancora poco conosciuto.
Sembra un paradosso: parliamo della storia a noi più prossima, che ha prodotto la Carta Costituzionale.

Certo, è passato del tempo; l’Italia è cambiata; ad Alba – morta nel 2001 – non piacerebbe probabilmente quello che siamo diventati (ed in effetti non faceva nulla per nasconderlo finchè è stata in vita); ma siamo appunto figli di quella Storia.
Non vorrei apparire retorico; qua la retorica non c’entra nulla.

La vicenda di Alba in questo senso è emblematica. È la storia di una donna giovanissima, di famiglia operaia. Una donna che acquisì la consapevolezza della lotta di classe fin da bambina, senza alcun condizionamento ideologico o familiare.
E come avrebbe potuto? La sua era una di quelle famiglie che lavoravano incessantemente non per costruirsi un futuro, ma per campare.
Non c’erano tempo e risorse da dedicare alla formazione sociale e politica nelle famiglie che arrancavano nell’Italia fascista.
Semplicemente, nel caso di Alba, come di tanti altri, c’era un senso innato di giustizia sociale, così forte da far sopportare oltre al confino, anche una successiva lunga e terribile detenzione, in attesa costante di una condanna a morte – o dell’internamento in un campo di concentramento – che per fortuna non si verificò.

Alba Spina finì a vent’anni in confino – era la confinata più giovane presente a Ponza nel ’33 – perché, dopo aver preso contatto con alcune cellule comuniste (le cellule erano formate di solito da tre elementi per ridurre al minimo i rischi di infiltrazioni e perché in caso di arresti e torture un eventuale cedimento dei militanti non avrebbe comunque portato allo smantellamento dell’organizzazione), fu bloccata prima di arrivare al confine francese con un passaporto falso. La milizia non credette alla sua tesi, di voler cioè espatriare alla ricerca di un lavoro più redditizio, perché il falso passaporto era dello stesso tipo già utilizzato da altri compagni di partito: da qui il confino.

Questo fu il primo contatto con Ponza: “l’isola era molto grande, più vasta di tutte le altre che avevamo incontrato durante il tragitto di trasferimento.
Il
 sole era splendido, le abitazioni tutte di un biancore che accecava. 
Ero abbacinata da tutte quelle case dipinte di bianco frammiste ad altre celesti e a qualcuna rossa, ma il bianco splendeva.”

Eppure Ponza, raggiunta, come spesso accadeva, con mare mosso dopo oltre sette ore di navigazione da Napoli (eravamo a febbraio), non doveva certo indurre pensieri “positivi” a chi veniva recluso.
La prima notizia sull’isola, ad Alba fu fornita da un carabiniere di scorta sul treno che a tappe la portava dal Piemonte, con questi termini:
“Ma lei lo sa che a Ponza non c’è acqua? Non è possibile dissetarsi. Per carità, ne morirà certamente”
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Risposta: “Se ci campano gli abitanti locali senza acqua o con l’acqua delle cisterne, ci vivremo anche noi”.

A Ponza in quel periodo vi erano solo una decina di donne confinate. Alba viveva in una casetta sopra S. Antonio con un’altra compagna.
Tra le sue note vi sono numerosi riferimenti alla nostra isola:
“Allora a Ponza c’erano pochi negozi: un vinaio, una macelleria, un ortolano,
la pescheria, la panetteria ed un venditore ambulante di verdura accompagnato dai figli che avevano 5 e 7 anni che anziché andare a scuola, come il padre erano carichi di merce… gli abitanti ponzesi si barcamenavano alla meno peggio.
La nostra padrona di casa riceveva
pochi soldi e qualche pacco di vestiario, usato, dal marito emigrato in America… i pescatori poi andavano alla pesca fino in Tunisia e rimanevano per mesi lontano…
ed ancora: “A Ponza, che pure era un’isola molto bella, non esisteva il turismo…”.

La storia di Alba è emblematica pure per alcune considerazioni sulla condizione femminile: “a casa dicevano, cosa può interessarti, sei una donna e come tale non devi interessarti di niente”.
Durante le varie peregrinazioni tra carceri di sicurezza era continuamente a contatto con storie tristissime di donne imprigionate perché prostitute, o perché “disonorate” (in carcere ci finivano solo loro, però), o perché avevano risposto al disonore pugnalando lo spasimante di turno.
Essere partigiane durante il fascismo imponeva una sorta di “rigidità” di genere, una auto-disciplina molto più forte rispetto ad un uomo, come quando le fu chiesto a Ponza da un compagno se permettesse che Amendola facesse colazione nella sua casa, non avendo ancora una camera propria: “No, perché altri compagni me lo hanno chiesto ed io non voglio fare quel servizio per nessuno, quindi anche per lui la mia risposta è la stessa”.

Alba Spina è tornata a Ponza nel 1978 in occasione dell’inaugurazione di una lapide in ricordo del confino politico.

Alba Spina [1]

“Alba Spina – una vita per un ideale” di Silvia Delzoppo; Edizioni Leone & Griffa. 2005