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Commento a “L’esperimento di Ponza e Ventotene nella riforma socio-amministrativa dei Borbone (2)”, di Sandro Romano. (2)

di Rosanna Conte
Il Porto di Reggio Calabria 1791

 .

Continua l’approfondimento relativo al periodo fondante delle colonie delle isole ponziane, nel contesto italiano e internazionale del tempo. 
Il dialogo intessuto finora soprattutto tra Alessandro Romano, Silverio Lamonica e Rosanna Conte, lungi dall’essere un’arena di contendenti, vuole rappresentare un contributo conoscitivo ad un periodo relativamente negletto, ma fondamentale ai fini dei successivi sviluppi.
Invitiamo i relatori (e coloro che vogliono esprimere un commento) a limitarsi al periodo antecedente alla fine del dominio napoleonico e al Congresso di Vienna nel 1815.
Il periodo del risorgimento italiano e i suoi influssi sulla nostra isola saranno un argomento successivo, da trattare separatamente, anche nei suoi aspetti più controversi.

La Redazione

Per il Commento.1, di Rosanna Conte, leggi qui

Per l’articolo di riferimento, di Sandro Romano.2, leggi qui

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Le osservazioni che seguono richiedono alcuni approfondimenti o digressioni.
Intanto è giusto il rilievo fatto da Sandro Romano nella risposta a Silverio Lamonica: Carlo, per rendere chiaro il suo intento di essere il primo re di un nuovo stato, come re di Napoli non accettò nessuna numerazione, nonostante il papa, che rivendicava la titolarità del feudo del regno di Napoli, lo avesse nominato Carlo VII.

Partiamo, adesso, dalla Prammatica Prima, atto fondativo del nuovo regno che “conteneva già la destinazione dei beni pubblici (feudi) ai contadini nullatenenti”.
Il nuovo regno era stato fondato nel 1734 da Carlo di Borbone ed il documento, riportato  nella foto con la dicitura Prammatica Prima, in cui viene istituita la colonia di Ventotene, è del 1771 ed è di Ferdinando IV.

Premesso che fra le prime prammatiche di ogni sovrano vi era quella con l’indicazione su dove e come si dovesse svolgere la cerimonia dell’inconorazione, forse è il caso di precisare cosa fossero le prammatiche.

Nel linguaggio giuridico del passato, ed anche in quello degli storici del Diritto, con prammatica si indica un editto o un decreto avente forza di legge che il re emanava su aspetti diversi della vita del regno, dall’ambito costituzionale ai comportamenti pubblici, ed era numerata ogni volta che ne se  aggiungeva un’altra sullo stesso argomento; ad esempio quelle sulla nascita del catasto sono 13.
La sua caratteristica era quella di regolare concretamente (una persona pragmatica è una persona che agisce  nel concreto, fuori dalle astrazioni) l’applicazione di una norma  giuridica.
Nella Prammatica prima citata, Ferdinando IV nel 1771 stabilisce la colonizzazione di Ventotene e prevede per i coloni lo stesso tipo di contratto e le stesse modalità di avvio che erano stati previsti per quelli di Ponza nel 1734 da re Carlo.

La prima immagine, invece, che riporta in didascalia la dicitura Legge dei demani e delle enfiteusi, riguarda l’istituzione del  Supremo Magistrato di Commercio col compito di coordinare e uniformare gli interventi in campo commerciale in tutto il regno, ed è una prammatica pubblicata il 30 ottobre 1739.

Carlo di Borbone. Prammatica

L’immagine del testo di A. Romano

Quella che riguarda la volontà di dare le terre demaniali (1), che erano beni pubblici, ma non feudi (caso mai erano parte dei demani feudali, come da nota), ai contadini (prima a quelli nullatenenti e poi a quelli più facoltosi) è la Prammatica XXIV De administratione Universitatum del 23 febbraio 1792 e non ebbe esito felice per la forte opposizione dei baroni.
Come dice un magistrato e scrittore di quel tempo, Alessio de Sariis, “Prevedendo l’assegnazione delle terre demaniali in primo luogo ai bracciali e poi ai cittadini coltivatori più facoltosi, il re sperava di migliorare le condizioni degli “avviliti vassalli”; tuttavia le divisioni demaniali effettuate in virtù della prammatica del 1792 costituirono un fatto eccezionale, essendo l’editto naufragato di fronte al tradizionalismo dei ceti dominanti e alla debolezza della borghesia terriera.”

Questa decisione fu presa da Ferdinando IV dopo gli eventi della rivoluzione francese (1789) ed in seguito alle grandi discussioni che fervevano fra gli intellettuali napoletani del tempo, discepoli di personalità come Genovesi, Filangieri, Galiani che avevano posto il problema del possesso della terra per migliorare l’economia del regno.

Comunque, la questione della terra non sarà risolta nemmeno dai rivoluzionari del ’99, il cui nucleo era formato in gran parte da questi intellettuali: discussero troppo sui principi di fondo e alcuni di essi erano  contigui ai baroni.

Così, quando tornarono i francesi nel 1806 era ancora presente il latifondo e nelle campagne era presente ancora un baronaggio che governava secondo le regole e le consuetudini che risalivano spesso fino al Medioevo.

 

L’esperimento di San Leucio

Rimettiamo a posto le date. L’esperimento iniziò nel 1778, dopo la morte per un incidente di caccia del primogenito di Ferdinando IV, il quale, in memoria del figlio, pensò di dare sollievo ai poveri radunandoli in un luogo e assistendoli. Ma ritenendo che l’ozio dei nullatenenti avrebbe reso la comunità un covo di malfattori, decise di dare loro un lavoro. Fece costruire opifici attrezzati con i telai più innovativi, case molto decenti per gli operai (214), una chiesa, la scuola, insomma un vero e proprio villaggio modello autonomo.

Non dimentichiamo che la richiesta da parte degli intellettuali di interventi sovrani per migliorare il regno riguardava anche l’industria oltre che l’agricoltura e la loro influenza emerge nello Statuto di San Leucio, che Ferdinando IV volle nel 1789 e dove si ritrova il richiamo continuo all’idea di uguaglianza.

Questa uguaglianza che riguardava tutti i membri della colonia e di cui erano beneficiarie anche le donne, non era tuttavia l’uguaglianza di tutti gli uomini, ma solo di coloro che vivevano a S. Leucio in quanto erano tutti artisti/artigiani.
Il documento regolamentava tutto: dalle preghiere del mattino, alle pause per il pranzo, ai beni da dare in eredità ai propri figli, ai comportamenti nel tempo libero, alle modalità di lavoro.

Lo storico Pietro Colletta  scrive che «quando il codice apparve, generò meraviglia nel mondo, contentezza ne’ Napoletani, i quali benché sapessero non essere del re que’ concetti, ne desumevano speranza di vedere allargati nel regno i principii governativi della colonia»
Molti intellettuali meridionali erano giunti a considerare San Leucio un vero laboratorio politico-economico-sociale in cui sperimentare soluzioni da applicare  successivamente  in tutto il regno.

Lo statuto di San Leucio ebbe comunque risonanza internazionale.
Ferdinando, che aveva compreso bene la forte eco che le leggi per la colonia di San Leucio avrebbero potuto avere, organizzò la cerimonia di promulgazione del codice come un evento istituzionale e mondano, facendolo accompagnare dalla rappresentazione, nel teatro di S. Leucio, del dramma “La Nina o sia la pazza per amore” di Paisiello.

San Leucio

L’edificio centrale di san Leucio

Cosa è stato San Leucio? Sandro Romano dice: “una fabbrica socialista autogestita”.
Intanto non era autogestita, ma regolamentata in ogni particolare dallo Statuto; né era socialista, appunto perché il concetto di socialismo (che ragiona in termini di capitale, proletariato, mercato del lavoro) non può essere collegato a quello di paternalismo che non richiede autonomia di pensiero e di decisione.

Come scrisse Kant (1724-1804), la personalità di maggior spicco dell’illuminismo tedesco (2): “un governo fondato sul principio della benevolenza verso il popolo, come di un padre verso i suoi figli, vale a dire un governo paterno, dove dunque i sudditi, come i figli minorenni che non sanno decidere cosa sia loro veramente utile o dannoso, siano costretti a comportarsi in modo puramente passivo, così da dover aspettare soltanto giudizi del capo dello Stato come debbano essere felici, e quando questi pure lo conceda loro, solo dalla sua bontà: (ebbene) questo governo è il massimo dispotismo pensabile”

Epitaffio sulla  tomba di Immanuel Kant

Epitaffio sulla tomba di Immanuel Kant (2)

Fu un’esperienza utopica? L’idea che si potesse creare una comunità felice attraverso le leggi era un’utopia settecentesca, ma S. Leucio restò un’esperienza unica, perché la colonizzazione di Ponza e Ventotene non è assolutamente assimilabile a quanto succedeva a San Leucio.
Qualche storico (Cantù e Croce) parla di un “capriccio” o “divertimento” di Ferdinando, ma per altri fu una felice e pacifica rivoluzione, esito della collaborazione tra gli illuministi e il re.
Secondo uno studio recente (D. Lazzarich e G. Borrelli; 2012) (3), San Leucio è un esperimento dell’arte del governo che in altre parti d’Europa era  presente da più di un secolo ed aveva rafforzato le forme statuali delle potenze del tempo.

Ferdinando cerca l’arte del buon governo incrociando la pianificazione delle attività produttive con la devozione religiosa e l’autorità paterna del re, ma l’esperimento è troppo circoscritto e guidato per ché possa dare dei frutti utilizzabili nel modo di governare.

Dappertutto, ormai, si andava delinendo l’idea che il protezionismo era nocivo all’economia e si parlava di liberismo nel commercio come nella produzione e nella manifattura: dirigere dall’alto persone e produzioni era ormai superato.

Quale fosse l’intenzione di Ferdinando IV, nonostante non avesse avuto esiti concreti dal punto di vista del cambiamento del regno di Napoli, San Leucio resta un’esperienza positiva che, con alterne vicende, è giunta fino a noi come manifattura di seta pregiata.

 

Per quanto riguarda l’avversione dei primi ponzesi per i nuovi arrivati alle Forna, è certamente credibile la rabbia di vedersi sfumare una grande quantità di terreno su cui puntare, ma c’è anche la differenza nelle modalità di colonizzazione: i torresi ebbero maggiori vantaggi degli ischitani come i dieci anni di franchigia invece che tre e l’enfiteusi immediata.

È da considerare, se le date sono esatte, che l’enfiteusi concessa ai primi coloni è del 1766, mentre Ferdinando IV divenne maggiorenne, e quindi re a tutti gli effetti, il 12 gennaio 1767: è molto probabile che abbia proceduto il ministro Tanucci col benestare di Carlo III dalla Spagna. Tanto più che il giovanissimo sovrano non aveva granché voglia di interessarsi delle questioni di governo: preferiva divertirsi andando a caccia o mescolandosi con i giovani plebei di cui assumeva toni e comportamenti, non per niente è passato alla storia come il re lazzarone. Basti pensare che fu introvabile per la cerimonia del suo insediamento: mentre il governo al gran completo lo aspettava, aveva preferito eclissarsi optando per la compagnia di Gennaro, suo fratello di latte e compagno di giochi.

Il Porto di Bisceglie 1790

 

Note

(1)  Bisogna precisare che, nel regno di Napoli, il demanio,  cioè “il complesso dei beni appartenenti allo stato e ad altri enti pubblici territoriali, in quanto destinati all’uso diretto o indiretto dei cittadini”,  poteva essere regio, feudale e comunale (o universale).

Il  demanio regio comprendeva i beni della corona che, normalmente non potevano essere  concessi in feudo perché garantivano il sostentamento del re e del governo e su di essi non c’era vincolo di asservimento (da non confondere con i beni ‘allodiali’ che erano beni di proprietà del re che ne poteva fare quel che voleva).

Il demanio feudale era una porzione del demanio regio concessa in feudo, non avendo potuto il re avvalersi di altri beni per le necessità sue e dello stato;  esso era vincolato per cui non poteva essere dato in subconcessione ad un feudatario minore ed  era utilizzato dalla popolazione per gli usi civici (taglio legna, acqua, pascolo ecc) così come era stato su esso in precedenza, quando era ancora demanio regio.

Il demanio comunale o universale era costituito dai beni che servivano al mantenimento e alla gestione del comune che nel regno di Napoli era chiamato, dall’epoca di Carlo d’Angiò, XIII sec., universitas.

 

(2) – L’epitaffio sulla tomba di Immanuel Kant – in un piccolo mausoleo nell’angolo nord-est della Cattedrale di Königsberg, nella odierna città russa Kaliningrad, che fino al 1945 si trovava in territorio tedesco col nome di Königsberg – così recita:
“Due cose riempiono la mente con sempre nuova e crescente ammirazione e rispetto, tanto più spesso e con costanza la riflessione si sofferma su di esse: il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di meDer bestirnte Himmel über mir und das moralische Gesetz in mir.”. [Da:‘La Critica della ragion pratica’]

 

(3) – Diego Lazzarich – Gianfranco Borrelli – “I Borbone a San Leucio: un esperimento di polizia cristiana”
In: Caserta e l’utopia di S. Leucio. La costruzione dei Siti Reali borbonici a cura di Imma Ascione, Giuseppe Cirillo e Gianmaria Piccinelli – Ministero per i Beni e le Attività Culturali – Direzione Generale per gli Archivi Roma 2012

 

Immagini di copertina e nel testo: Il Porto di Reggio Calabria 1791 – Il Porto di Bisceglie. Dalla serie: Paesaggi del Regno di Napoli dipinti tra il 1771 e il 1791 da Jacob Philipp Hackert (1737 – 1807).

 

 

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