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25 novembre. La giornata contro la violenza sulle donne

proposto dalla Redazione
Giornata Internazione contro la violenza sulle donne [1]

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In occasione della Giornata, pubblichiamo un’intervista a Tea Ranno, Autrice  del libro “La sposa vermiglia” già presentato su questo sito in un’intervista di Lorenza Del Tosto. Per gli articoli precedenti, digita – La sposa vermiglia – nel riquadro CERCA NEL SITO, in Frontespizio

La scrittrice Tea Ranno [2]

Donne contro bestie: intervista alla scrittrice Tea Ranno
di Salvo Taranto

Violenza sulle donne: un tema terribilmente difficile da affrontare, che presta il fianco a facili banalizzazioni. Proprio allo scopo di scongiurare questo pericolo, Rosso Parma ha voluto intervistare Tea Ranno, scrittrice siciliana residente a Roma, vincitrice del premio Chianti con “Cenere”: una delle firme più brillanti della nostra letteratura.
Per Mondandori ha recentemente pubblicato un nuovo romanzo, “La sposa vermiglia”, in cui viene narrata, in modo incantevole, la vicenda di una donna chiamata a difendersi dalla viltà di un uomo.

La protagonista del tuo romanzo è una donna che sembra remissiva, piegata all’accettazione di un destino inevitabile. Eppure, davanti all’ingiustizia, tira fuori gli artigli e si ribella alla violenza. Cosa scatta nella sua testa?
Appunto, “sembra” remissiva: in realtà è una donna forte, che si è imposta l’obbedienza a causa di un profondo senso di colpa (si è creduta responsabile della morte della sorella) col quale ha dovuto convivere per anni, e che per anni l’ha obbligata a non trasgredire, non ribellarsi alle decisioni dei genitori che si ritenevano in diritto di scegliere anche per lei. Poi però, nel momento in cui avverte la sopraffazione come mutilazione di sé, della propria libertà di amare (viene promessa in sposa a un vecchio ricchissimo e mafioso), ecco che da palombella fragile si trasforma in Sparviera: tira fuori gli artigli, strappa i lacci che la tengono prigioniera e tenta di volare via. Tenta, come hanno tentato tutte le donne che hanno voluto riprendersi se stesse e sono state uccise. Cosa scatta nella sua testa? Una gran rabbia, un gran bisogno di riaffermarsi padrona della propria vita.

Elementi ancestrali, deficit culturali, paura di perdere la propria centralità: cosa spinge un uomo ad offendere, fisicamente e non, la dignità di una donna?
Elementi ancestrali, sì, un bisogno di sopraffazione che è proprio dell’animale, della bestia che marca i propri ambiti territoriali e uccide per mantenere inalterato il suo potere sopra di essi. Deficit culturali non direi: si uccide a prescindere dal proprio spessore “sapienziale”; la casistica degli ultimi mesi comprende – nel ruolo di assassini – studenti, primari ospedalieri, commercianti, poliziotti, commercialisti, nullafacenti. Non mi pare che c’entri molto il sapere, s’innescano, piuttosto, elementi di soverchieria che prescindono da ogni logica, da ogni cultura. Nel momento in cui scatta l’imperativo: “Tu mi appartieni, faccio di te ciò che voglio”, viene meno ogni possibilità di ingerenza dell’intelletto. E’ come se si spegnesse la tanto conclamata luce della ragione, quella che permette di discernere tra bene e male, semplice confronto verbale e offesa fisica, tentativo di chiarimento e omicidio. Insomma, si spegne il cervello e subentra la primordialità.

Risulta molto evidente nella lettura del tuo libro che intorno ad una storia di violenza orbita sempre l’isolamento della vittima, l’incapacità di chiedere aiuto o di dare soccorso. C’è sempre un concorso di colpe dietro una tragedia?
Concorso di colpe forse no, omissione sì, incapacità di vedere anche, bisogno di non ingerenza pure. Nella storia di Vincenzina Sparviero c’è l’utile parentale che prevale sulla felicità individuale, l’interesse che “giustifica” la sottomissione, e tutto un cerchio di atti mancati che permettono l’irreparabile.
Chi ha intorno a sé una cintura di affetti, di amicizie, ha il conforto della solidarietà e non pensa di non avere vie di scampo. La donna sola, invece, si lascia sopraffare dalla violenza, si chiude, non trova la forza di domandare aiuto, pensa che il problema sia soltanto suo e che nessuno sia in grado di soccorrerla; pensa, anche, che prima o poi lui cambierà, smetterà la rabbia e si trasformerà in un’altra creatura. Illusioni. Che durano il tempo di un soffio. E subito si ricomincia. Tra chi offende e chi è offeso s’instaura un rapporto morboso dal quale è molto difficile svincolarsi: violenza da una parte, sudditanza dall’altra, e così, avanti, un giorno dopo l’altro, fino a quando, giunta allo sfinimento, la donna tenta il volo, e allora… può trovare un cacciatore pronto a fermarla.
Non credo ci sia un copione dichiarato in cui ognuno sceglie la sua parte e si adegua a essa, mi pare, piuttosto, che l’abitudine, la stanchezza, la debolezza, la dipendenza (a volte economica) rendano alcune donne schiave dell’uomo che hanno scelto. Scelto per amore. Scelto perché incantate – all’inizio – da elementi fascinosi che hanno funzionato in loro come il flauto di un pifferaio magico. Poi l’incanto finisce, e la musica cambia, sottrarsi diventa difficile, soprattutto quando non esiste quella cintura di affetti e amicizie di cui dicevo prima, che dà alla donna la forza per denunciare, per compiere gli atti indispensabili alla salvaguardia della propria incolumità.

Tralasciando la società civile, cosa possono fare concretamente le istituzioni per affrontare un problema che non può essere considerato soltanto di ordine pubblico?

Creare più centri in cui le donne possano rifugiarsi, creare strutture adeguate (le esistenti sono pochissime e affidate spesso alla disponibilità di volontari), lavorare di più nelle scuole, far sì che gli adolescenti riflettano sul rapporto di coppia, su ciò che significa amare – sono spesso i figli che riproducono i comportamenti violenti dei genitori sulla base di uno schema che hanno introiettato per averlo quotidianamente vissuto e subito; aiutare le ragazze a comprendere che se uno le prende a schiaffi è meglio non andare oltre, interrompere un rapporto malato prima che diventi un rapporto omicida; aiutare le donne a capire che le botte non risolvono le situazioni difficili, che un marito che torna ubriaco non deve necessariamente sfogare la rabbia etilica sopra un corpo qualunque: moglie o figli non importa, purché ci sia un sacco da massacrare. Bisogna che si sappia, che si lavori a eliminare l’ignoranza, quella che spesso spinge a un ruolo di crocerossina, a capire che invece di una persona problematica si ha davanti un carnefice; lavorare sul rafforzamento della propria autostima, del proprio volersi bene: sia ragazzi che ragazze. Aiutare i ragazzi a comprendere che la violenza è una diminuzione di virilità e la temperanza un valore, una forza più incisiva, quella capace di dominare le passioni negative evitando lo scadere al livello delle bestie.

Quali responsabilità hanno invece i mezzi di comunicazione, spesso unici modelli educativi?
Quella, per esempio, di abituarci a una continua violenza: dibattiti televisivi in cui vengono ignorate le più elementari regole del confronto, assalti verbali che sconfinano nell’insulto e spesso nella aggressione fisica, l’idea che tutto sia possibile, tutto, anche rubare, anche stuprare, anche uccidere mantenendo la possibilità di farla franca. L’impunità. Dunque non essere necessariamente responsabili delle proprie azioni.
E poi una sorta di compiacimento del drammatico, del tragico, perché drammi e tragedie fanno audience, e il sangue versato provoca quelle scosse emotive tanto utili per alzare gli indici d’ascolto. E’ vero, alzano gli indici d’ascolto, ma lasciano passare messaggi sotterranei devastanti: “La violenza ti porta alla ribalta”, “Il sangue che versi accende i fari della popolarità sopra di te”, “Se l’ha fatto lui, perché non puoi farlo anche tu?” …E così s’innescano pericolosi meccanismi di emulazione che hanno a protagonisti i più deboli, quelli che non sanno difendersi dalla valanga di disinformazione che li investe e spesso li tramortisce.

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