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Il ritorno (3)

di Tina Mazzella

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 .

Tuttavia non di rado accade che le cose non si svolgano secondo i nostri desideri ma che seguano un loro corso autonomo determinando per noi situazioni imprevedibili e deludenti.
Tutto questo Diana dovette sperimentare al ritorno al paese d’origine.

Di certo non aveva previsto le grandi trasformazioni subite da esso e dagli abitanti durante la sua lunga assenza.

Nei rioni ed in special modo sul corso principale erano fioriti alberghi, bar, negozi, pizzerie e ristoranti; nelle zone più suggestive erano nate ville signorili e discoteche: sopra lo scoglio della Ravia, venduto ad una famiglia straniera, era stata costruita addirittura un’abitazione. Quasi tutte le case erano state ristrutturate; le grotte scavate nella roccia erano divenute dimore lussuose.

Le spiagge una volta disponibili per la popolazione non erano più accessibili ai comuni mortali, poiché adibite al ricovero dei natanti, così che, per fare il bagno in acque pulite e tranquille, era necessario servirsi di motoscafi personali o di barche a pagamento. Era evidente che il dio denaro regnava sovrano anche in quell’isola!

Le feste e le tradizioni che animavano e compattavano la piccola comunità erano cadute in disuso lasciando una profonda amarezza nel cuore degli anziani e producendo un vuoto incolmabile in quello dei giovani ormai costretti ad annaspare dentro le loro disorientanti solitudini. La gente per lo più assisteva agli eventi con disarmante indifferenza. Stordita dalla televisione e dal benessere materiale, pareva incapace di formulare pensieri indipendenti cullandosi in un torpore grigio e strisciante.

Diana dovette prendere atto con vivo disappunto che i suoi parenti non facevano eccezione, nonostante sino ad allora avesse conservato di loro un’immagine molto diversa. Li riscoprì falsi, presuntuosi e privi di calore umano. Si rese conto che l’accoglienza che le avevano riservato, ben lungi da un affetto sincero e da un effettivo interesse alle sue vicende personali, si riduceva unicamente a poche moine di facciata.

Eppure, sollecitata dai genitori, durante tutti quegli anni di lontananza lei ne aveva coltivato il ricordo. Aveva scritto loro lettere ed  inviato pacchi dono in occasione del Natale desiderando rivederli al punto da decidersi ad intraprendere quel viaggio alla volta dell’Italia.

Si sentì completamente confusa ed estranea al mondo dal quale era uscita bambina per inseguire il sogno di un’esistenza migliore.
Tutto le urlava che chi abbandona la propria terra difficilmente riesce a rioccuparvi l’antico posto e tanto meno può  rientrarvi da vincitrice. Sembrava una maledizione, ma era proprio così: in qualsiasi luogo approdasse, Diana era condannata a recitare la parte della straniera, di una straniera che non appartiene ad alcuno.
Una straniera, si sa, vaga ovunque smarrita, alla stregua di una pianta privata delle proprie radici ed esposta all’arbitrio dei venti.
Per lei le cose si erano svolte per l’appunto in questo modo: non aveva patria né legami all’infuori dei figli che comunque dopo aver conseguito la loro indipendenza economica, si erano incamminati per la loro strada e l’avevano dimenticata.

Assorta in queste amare considerazioni, la donna sedeva su uno dei muretti di recinzione del piccolo piazzale del lanternino situato alla punta del molo, intenta a fissare le imbarcazioni ormeggiate nel porto ed indifferente al chiasso prodotto dal nutrito stuolo di ragazzi ivi convenuti. Una folata di vento giunta dal mare la fece rabbrividire costringendola a stringersi lo scialle di seta blu intorno alle spalle.

Echi di voci provenienti dal passato le risalirono alla memoria e con esse nomi e volti che credeva dimenticati. Tra quelle apparizioni c’era anche lei, bambina ribelle mai paga di corse, di burle e di divertimenti, monella dalla pelle scura, dalle lunghe trecce e dai grandi occhi neri.
Rieccoli tutti insieme quei discoli scatenati sulla piazzetta della chiesa di Santa Maria impegnati a ridere, a giocare con lo strummolo ed a sfidarsi con una monetina a tix tox funtanelle; rieccoli a sciamare, simili ad api sui fiori, al seguito di matrimoni e battesimi per gettarsi sui confetti lanciati dai presenti alla cerimonia ai festeggiati al grido di: “Eh! Eh! Eh! Eh! Prré! …S’è ’nzuràt ’a figlia d’u re!” oppure: “…Eh! Eh! Eh! Eh! Prré …è figliàt ’a figlia d’u re!”

Le piaceva indugiare in quei ricordi: erano così lontani da sembrarle irreali e tuttavia facevano ancora male, denunciavano assenze, perdite, rimpianti ed una lacerante solitudine.

La parte più razionale di sé le suggeriva di scacciare quei fantasmi, inutili fardelli di storie ormai sepolte, le ingiungeva di abbandonare quel mondo che sin dall’infanzia l’aveva respinta per instillarle nell’anima solo sterili sentimenti di nostalgia. Altrove era il suo posto, non su quelle rocce bruciate dal sole e mangiate dalla salsedine, su quelle rocce dure di miseria che avevano finito per inaridire anche il cuore degli isolani.

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Una terra fredda ed anonima l’aspettava al di là dell’oceano, la terra dei grandi spazi e dei grattacieli in cui era approdata un giorno con la testa piena di sogni.
Ora quella terra un po’ le apparteneva, perché accoglieva pietosamente le spoglie mortali dei suoi genitori, le sole persone che l’avessero davvero amata. Era là che doveva fermarsi: forse quella era l’unica patria nella quale avrebbe potuto continuare a vivere.

Affidò all’agenzia il compito di vendere la vecchia casa paterna con il suo carico di ricordi e di delusioni e partì nuovamente per la lontana America portando nella mente e negli occhi l’immagine di paesaggi fiabeschi e tuttavia amari ed inospitali.

 

[Il ritorno. (3) – Fine]