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Anamnesi familiare

di Silverio Tomeo

Ellis Island [1]

 .

Se digito il nome e il cognome del passenger che agli albori del XX secolo fu il mio nonno materno sulla research del sito Ellis island lo trovo che arriva esattamente nel 1900 – all’età di 24 anni – proveniente da ‘Poma’ che – i refusi sono numerosi sul quel sito – sta per Ponza.
Se digito solo il cognome trovo una caterva di passengers, tra cui, nel 1905 a 29 anni, un tale Ancello che sta per Aniello, proveniente da ‘Ponzan’, che sta sempre per Ponza.
Ed è proprio lui, credo.

Nelle storie di famiglia ricordo infatti che si diceva che ci andò più volte a New York, in bastimento per Napoli e poi da lì via con la motonave e solo una breve sosta a Genova, l’ultimo porto dall’Italia.
Se con un poco di pazienza mi registro su quel sito posso attivare la funzione wiew ed attingere informazioni più dettagliate.
Vengo a sapere che arrivò la prima volta a New York il 13 marzo del 1900 con la ‘Victoria’, tutte le caratteristiche della motonave con la foto, il documento d’ingresso in copia; che risultava ancora scapolo; posso persino farmi inviare a pagamento le copie e la foto.

Motonave Victoria [2]

La motonave Victoria

La seconda volta era già sposato, arrivò il 29 maggio del 1905 con il ‘Patria’, nel documento risulta nuovamente good, buono per l’ingresso, e si leggono meglio le indicazioni poi trascritte frettolosamente deformate..
Sul sito di Ellis Island si può risalite agli emigranti che dal 1892 e il 1924 sbarcarono al porto di New York da tutta Europa, una marea umana di 22 milioni, e il nonno avrebbe potuto fare anche un’altra emigrazione non segnalata perché successiva, oppure perché smarrita nei faldoni andati al macero.
Ritornò poi definitivamente sull’isola nativa, dove aveva la moglie con già tre maschi e una femmina, e con mia madre, ultima nata, completò la figliolanza.
Durante i bombardamenti su Napoli e Gaeta (che andarono dai primi del ‘41 all’estate del ’43), e i cui bagliori si vedevano dall’isola, cadde malamente dal terrazzo di un vicino che, come quasi tutti nel miniborgo, gli era parente, dove stava facendo dei piccoli lavori (era un bravo carpentiere). Forse stava sistemando il canaletto di scolo dell’acqua piovana per la cisterna (non c’era l’acquedotto).
Per le conseguenze di quella brutta caduta morì dopo una lunga agonia. Avrebbe potuto farsi curarsi nell’ospedale più vicino che era a Napoli, ma soprattutto nel ’42 e nel ’43 la città di Partenope era sotto i bombardamenti anglo-americani. Ben 120 bombardamenti che avevano fatto migliaia di morti distruggendo case, infrastrutture e fabbriche. A fine settembre del ’43 l’insurrezione popolare spontanea delle 4 giornate liberò Napoli dall’occupazione tedesca, prima città europea a liberarsi da sola.

Nacqui già orfano – da orphanus, privo – di nonno materno.
Non arrivai quindi mai a conoscerlo se non in foto, in una in particolare, nel ritratto con mia nonna, che rimase a lungo appeso nella casa del ‘Pizzicato’, il borgo su in alto di Ponza porto, e in altre che appena ricordo dove – sempre con dei bei baffi umbertini – sta da giovane con cugini e amici e anche un fratello nelle foto ingiallite, vestiti bene, impomatati di brillantina, per darsi un tono e non apparire cafoni.
Nonno Aniello in quella foto ha un volto virile, occhi distanziati, fronte ampia, naso lievemente adunco e affilato, l’espressione seria di chi è stato risvegliato dall’emigrazione a New York City.

Immigranti a Ellis Island [3]Immigranti a Ellis Island

Il nonno avrebbe lavorato, tra l’altro, tra gli oltre 7.700 operai, di cui molti italiani, che nell’arco di sedici anni allestirono la metropolitana di New York, inaugurata nel 1904. Non doveva essere un tipo mondano; se ne parlava nei ricordi di famiglia come d’un uomo schivo, mite, gentile, calmo.
Sicuramente non andava ad ascoltare jazz al Cotton Club, il mitico locale che aprì nel 1920.
Si trovò per tempo a percepire le prime notizie intorno alla misteriosa organizzazione chiamata la Mano Nera, e ne parlava con qualche preoccupazione ai familiari.

La nonna era chiamata “la calabrese” per via di una sua lontana ascendenza cosentina. Mia madre era l’ultima nata. Il nonno doveva avere già passato i cinquant’anni, aveva una bella casa a piena vista sull’isola, un po’ di terre, sicuramente qualche risparmio dall’emigrazione.

Il maggiore dei suoi figli era già a New York a lavorare come capocantiere, aveva sposato una bella bionda americana, da cui ebbe due figli, ma molto più tardi divorziò, per poi risposarsi con una compaesana che gli era lontana cugina, giusto così come bastone per la vecchiaia.
Conobbi lo zio d’America quando venne sull’isola a sistemare un po’ di cose. Prese una piccola barca di legno usata giusto per un’estate, sembrava ironicamente possibilista sull’idea di rimanere. I suoi occhi chiari e freddi non guardavano quasi mai l’interlocutore, sviavano e si fissavano spesso sull’orizzonte marino, era accorto e poco loquace. La tragedia d’Europa l’aveva vissuta altrove.

Mio nonno Aniello dovette andarsene verso i 67 o 68 anni, quasi a fine guerra, lasciando una famiglia con due figli in Italia, un figlio a New York, il mio zio americano che in tempi di guerra a volte mandava ai familiari dollari e pacchi postali con vestiti, e due figlie a Ponza.
La figlia maggiore ebbe la sventatezza di sposarsi con un miliziano fascista di guardia ai confinati, che poi, caduto il Regime disse più o meno che andava a prendere le sigarette verso Napoli, insomma a trovare i suoi parenti, e mai più fece ritorno.
Si sussurrava con vergogna che visse poco, che si era forse ammalato di una forma acuta e incurabile di tubercolosi, ma chi può dirlo, non escluderei che si fosse arruolato tra i repubblichini di Salò per poi rimanerci secco.
Lasciò questa mia zia, piccola e tenace, con due belle figlie e un giovane di bell’aspetto, indolente, vanitoso, simpatico.
Questo mio cugino era andato una prima volta a New York, e raccontava che nelle circa due settimane che ci metteva la nave da Napoli, quando era arrivato in America non riusciva più a vedersi i piedi per quanto era ingrassato a bordo, mangiando a sazietà e non svolgendo attività fisiche.
E che poi lì a New York era tutto più grande, le bistecche, le conserve, le auto, i palazzi!
Sì e no doveva aver intravisto Napoli e Genova, come la maggioranza degli emigranti in America dal centro-sud, magari senza il tempo per farsi neppure un giro nelle due città portuali.
Tanti di questi emigranti non hanno mai neppure conosciuto l’Italia, e non dobbiamo mai dimenticare come per loro recarsi di botto in una grossa città americana, che sia Boston, Chicago o New York, comportava inevitabilmente quello che chiamano cultural shock, un passaggio senza transizione in una situazione metropolitana moderna venendo da paesi rurali, e lo shock funzionava anche per i rientri che producevano spesso spaesamento.

Nella ‘Grande Mela’ mio cugino aveva dovuto fare un poco il verme, si era sposato opportunisticamente per ottenere la cittadinanza, per essere poi abbandonato dalla “poco di buono”, e si sussurrava che in tempi precoci avesse abusato con la cocaina, ma potrebbe anche essere una favola di famiglia, altrimenti, visto il periodo – tipo primi anni ’60 – vuol dire era un tipo all’avanguardia, per quei tempi.
Tornò sull’isola per pochi anni per poi ripartire, con la madre e le sorelle, nel Bronx. Non si trovava più a vivere sopra uno scoglio. Fece in tempo a insegnarmi il nodo scorsoio per gli ami da pesca e come pasturare a mare dagli scogli.

Attraverso le ‘chiamate’ familiari la zia con figlie, generi e nipoti e questo mio cugino, andarono via per il Bronx italiano; anche altri parenti del Pizzicato fecero lo stesso, ed erano già gli anni della mia adolescenza.
Erano strappi dell’anima queste partenze. Conservo ancora le lettere che mia madre accumulava negli anni di una sua nipote a New York.

Agli inizi degli anni ’90 due simpatici vecchi ragazzoni emigrati in Canada che erano in un viaggio di memoria sull’isola, passando dalla mia casa nativa mi vollero salutare e mi dissero che ricordavano benissimo il mio nonno, le vendemmie, la vita di quel borgo, tutti ricordi della loro lontana giovinezza.

La traccia genealogica ancestrale di nonno Aniello porta a un colono di Campagnano d’Ischia che arrivò con famiglia sull’isola il 30 ottobre del 1734.
Un gioco delle bambine del Pizzicato nell’anteguerra era quello di salire su una piccola collina, guardare in mare verso la direzione della lontana America ed eccitarsi a vicenda affermando con foga di vedere “i negri”, le macchine, i grattacieli. Qualcuna a fine gioco era davvero convinta di aver visto qualcosa.

Dove in prevalenza mi è capitato di vivere, il mio nome è solitario e sia il cognome di mia madre che quello di mio padre irpino sono praticamente fuori corso, quindi suppongo che anch’io devo essere un involontario emigrante.

 

Note.
A proposito del sito web di  Ellis Island riporto il link di quest’articolo di Vittorio Zucconi, da La Repubblica del 20 aprile 2001, che mi colpì quando apparve su quel quotidiano:
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2001/04/20/ellis-island-nostalgia-on-line.html [4] (NdA – Nota dell’Autore)

Per l’estremo interesse dell’articolo citato dall’Autore, lo pubblicheremo per intero quanto prima, in appendice al suo scritto (NdR – Nota della Redazione)

 

[Anamnesi familiare. Ellis Island. (1) Continua]

 

A proposito di Ellis Island riporto quest’articolo di Vittorio Zucconi, da Repubblica del 20 aprile 2001.