Ambiente e Natura

Come ho conosciuto l’italiano (2). Un racconto di Predrag Metvejevic’

proposto dalla Redazione

Predrag Matvejevic.2.

Per la prima parte, leggi qui

La guerra continuò. Continuarono anche le nostre tribolazioni, ma ormai ci eravamo abituati. I parenti che vivevano in campagna ci portavano ogni tanto quel poco di cibo che bastava a tenerci in vita. Vendemmo tutto ciò che si poteva vendere. C’indebitammo.
Trascorrevo tutto il tempo libero a suonare su un vecchio pianoforte, sognando di diventare un pianista famoso e guadagnare, così, un sacco di quattrini, tanti da poter pagare i debiti, rimettere a posto i denti della mamma, sfamare tutti i bambini della città. Mi innamorai di una giovane suora che mi dava lezioni gratuite di piano, avevo già dodici anni.
Si attendeva da un giorno all’altro che la guerra finisse. Ogni sera ascoltavamo Radio Londra. A Napoli c’erano già gli alleati. I russi si avvicinavano ormai ai confini del nostro Paese e proprio da loro mi attendevo il miracolo: ero sicuro di trovare fra i soldati russi, quando sarebbero arrivati da noi, qualcuno dei parenti di mio padre che fino ad allora non eravamo riusciti a conoscere. Un parente che sicuramente aveva una bella voce per cantare. Gli davo i nomi che trovai nelle letteratura russa che cominciavo a leggere in lingua: Anatolij, Serghej, Vsevolod.
Il 13 febbraio 1945 finalmente Mostar venne liberata. In città entrarono i partigiani. In mezzo a loro c’erano numerosi combattenti italiani sparsi tra le varie brigate. C’era anche un intero battaglione chiamato «Garibaldi». La sera di quel lungo e freddo giorno di febbraio qualcuno tornò a bussare alla porta della nostra casa. Il cuore mi salì in gola. Dal suono o meglio dalla cadenza e dall’intensità di quel bussare riconobbi qualcosa che già avevo sentito. Era il bussare di una mano familiare.
«Sono Mario».
Era tornato! Mi abbracciò, mi piantò sulle sue ginocchia. Rimase con noi non so quanto nella gelida stanza della nostra casa. «Tornerò domani», s’accomiatò.
E venne ogni giorno, per tre o quattro settimane fino a quando il suo battaglione rimase in città. Tornò ad aiutarci. Le navi alleate avevano cominciato a gettare le ancore nel porto di Dubrovnik, sbarcando armi, munizioni e viveri per l’esercito partigiano e per la popolazione. Sui pacchi degli aiuti stava scritto UNRA. Ancora ricordo com’erano fatti. C’era di tutto in quei pacchi, dal vestiario alla cioccolata. Aspettavamo l’arrivo di Mario ogni giorno verso mezzogiorno, chiedendoci che cosa ci avrebbe portato.
Ma la guerra non era finita. I partigiani si accingevano a sfondare le linee tedesche per proseguire la marcia verso il Nord del Paese. All’inizio di aprile, liberarono Sarajevo. Nel corso della primavera – l’ultima primavera di guerra – se ne andò anche Mario per partecipare alle operazioni finali.
«Tornerò», disse nella nostra lingua: «Vratit? u se!».
Non tornò.
Non riuscimmo a sapere più nulla di lui. Le ultime operazioni belliche impegnarono l’esercito in scontri durissimi: i partigiani erano abituati alla guerriglia, non alla guerra frontale. Molti persero la vita in quelle battaglie di aprile e nei primi giorni di maggio. Se avesse potuto, Mario sarebbe certamente tornato.
Sapeva che io lo aspettavo.
Ma non tornò.
La storia che ho voluto raccontare, tuttavia, non è ancora terminata. La guerra lasciò irrisolti molti problemi su un territorio verso il quale la grande Storia non è stata molto tenera. Mi avviai agli studi superiori, ma non a quelli di musica: m’iscrissi al quadriennio di lingue e letterature romanze a Sarajevo; presi a studiare seriamente anche l’italiano. A causa dell’insonnia e della depressione – disturbi cominciati probabilmente con le notti passate in bianco durante la guerra – fui costretto a lasciare i libri. Nel frattempo mi chiamarono alla leva militare. La naia mi toccò nel periodo peggiore: era scoppiata la cosiddetta «crisi di Trieste» che minacciava di trasformarsi in una nuova guerra.
Dalla caserma di Zemun, presso Belgrado, dove si trovava il mio battaglione, fui trasferito sul monte Platak che domina la città di Rijeka/Fiume. In quella regione di frontiera il nostro addestramento militare, con tiri, finte battaglie e lunghe marce, continuò giorno dopo giorno, nelle ore mattutine e in quelle pomeridiane. Eravamo pronti ad intervenire nel vicino Territorio di Trieste suddiviso nelle Zone A e B. Le marce si protraevano per diverse ore, cadevamo a terra per la stanchezza; correvamo all’assalto di immaginari fortini e trincee nemiche, eseguendo gli ordini, sparando e urlando «hurrah».
Gli allarmi si ripetevano ogni notte, lasciandoci poche ore di sonno. Servivano a tenerci pronti a qualsiasi evenienza.
«Sveglia! Il nemico non dorme!», urlavano gli ufficiali di picchetto, ma non dormivo neppure io.
Anche dall’altra parte del confine le giovani reclute italiane si preparavano alla resa dei conti con “’sti slavi”, anche loro si addestravano, marciavano, correvano all’assalto, sparavano contro di noi con tutte le armi.
Mi tormentava un pensiero: «E se Mario avesse un figlio e quel ragazzo fosse dall’altra parte del confine? Se scoppiasse la vera guerra e lo colpissi?». Mi consolavo pensando al fatto che ero un cattivo tiratore, avrei certamente mancato il bersaglio. Anche oggi, quando in Italia incontro qualche mio coetaneo, mi chiedo se non sia stato in mezzo a coloro che io avrei dovuto uccidere o che avrebbero potuto uccidere me.
Una sera, alla periferia di Fiume, sentii tre ragazzi e una ragazza che, seduti in disparte, cantavano in italiano la canzone Vola, colomba bianca vola… Cantavano sottovoce, con nostalgia, ma anche con una punta di orgoglio. Quando scorsero il soldato che si avvicinava – ero io – se la diedero a gambe.
Non riuscivo a credere ai miei occhi: c’è qualcuno che fugge alla mia vista, cioè al cospetto di un ragazzo pallido e nervoso, studente universitario senza laurea, figlio di un emigrante di Odessa, «amico di Mario»!
Ben presto mi fu raccontata la storia dell’esodo dei nostri italiani dalle terre istro-quarnerine.
Venni a conoscere anche l’altra storia, quella dei massacri compiuti dalle Camicie nere in Dalmazia e in Montenegro durante l’occupazione.
Non riuscivo a credere o non volevo credere né all’una né all’altra, eppure sentivo e intuivo che in entrambe c’era del vero.

PONTE DISTRUTTO

Fu così che divenni anch’io un componente della minoranza, non soltanto nazionale o politica, ma della minoranza in assoluto.
Ignoravo dove la cosa mi avrebbe portato. Forse non soltanto nella letteratura.
Qualche anno più tardi, avendo conosciuto non pochi intellettuali della minoranza italiana del territorio istro-quarnerino, mi fu più facile capire i problemi di quegli italiani esuli e di quelli «rimasti con noi» e talvolta dimenticati dai loro connazionali. Era possibile collaborare con quel piccolo «popolo d’Italia» nella Jugoslavia che non era ancora «ex»: ricordo in questa occasione Eros, Giacomo che mi ha aiutato a tradurre questo racconto, Nelida, Lucio, Alessandro, Claudio e altri amici che conobbi prima di arrivare nelle patria di Mario.
Da otto anni sono qui, con voi. L’Italia mi ha concesso la cittadinanza, ho mantenuto anche la cittadinanza della Croazia.
A Roma, agli studenti universitari de «La Sapienza» che imparano la mia lingua materna, racconto talvolta la storia del mio vecchio amico del tempo di guerra, quella che ora ho raccontato a voi.
Già prima di venire in Italia ho cercato di spiegare alcune cose a diversi interlocutori. La contesa non induce alla comprensione.
Quasi sempre la vendetta colpisce gli innocenti.
Rammentare il male non libera dal male, l’ho ripetuto tante volte all’una e all’altra parte. Pochi mi hanno ascoltato.

Un mio amico, ex dissidente russo, ha aggiunto impietosamente: «Hanno ascoltato vari profeti nel deserto, non vogliono più sentirli».
S’accontentano del deserto.

 

[Tratto dalla Lectio doctoralis, tenuta in occasione della consegna di Laurea honoris causa all’Università di Trieste (28 giugno 2002). Traduzione di Giacomo Scotti]

Mostar senza il ponte. Distrutto nel '93

Note sulla vita e l’opera dello scrittore (Da Wikipedia e dal web a cura della Redazione)

Predrag Matvejević è uno scrittore e accademico croato.
Matvejević è nato a Mostar, nell’allora regno di Jugoslavia e oggi repubblica indipendente di Bosnia ed Erzegovina; suo padre, giudice a Mostar dopo il 1945, era di etnìa russa benché nato a Odessa, in Ucraina; sua madre era jugoslava di etnìa croata.
Ha insegnato Slavistica alla “Sapienza” di Roma dal 1994 al 2007, dopo esser stato docente di Letteratura francese all’Università di Zagabria e di Letterature comparate alla Nuova Sorbona-Parigi III.
Emigrato in Francia nel 1991, dal 1994 al 2008 ha vissuto in Italia.
È stato consulente per il Mediterraneo nel Gruppo dei saggi della Commissione europea durante la presidenza Prodi. È vicepresidente del PEN Club Internazionale di Londra. È co-fondatore nonché presidente del comitato scientifico della Fondazione Laboratorio Mediterraneo (oggi Fondazione Mediterraneo) di Napoli.
Per la sua attività di scrittore ha ricevuto numerosi riconoscimenti in Italia e all’estero, fra cui il Premio Strega europeo nel 2003 e il Prix du meilleur livre étranger 1993 a Parigi.
Il governo francese gli ha conferito la Legion d’Onore, il presidente della Repubblica Italiana gli ha attribuito la cittadinanza italiana e il titolo di Commendatore dell’Ordine della stella della solidarietà italiana.

Pane nostro. 2010. Copertina.OK

Tra i suoi libri, tradotti in varie lingue, si ricordano i più famosi: Epistolario dell’altra Europa (Garzanti 1992), Breviario Mediterraneo (Hefti 1989, poi Mediterraneo. Un nuovo Breviario, Garzanti 1991), tradotto in una ventina di lingue. E poi: Sarajevo ( Motta 1995); Ex Jugoslavia. Diario di una guerra (Magma 1995, con prologo di Czeslav Milosz e epilogo di Josif Brodskij); Mondo Ex – Confessioni (Garzanti 1996); Tra asilo ed esilio (Meltemi 1998); Il Mediterraneo e l’Europa – lezioni al College de France (Garzanti 1998); I signori della guerra (Garzanti 1999); Isolario mediterraneo (Motta 2000); Compendio d’irriverenza (Casagrande 2001); ”Lo specchio del Mare mediterraneo” (Congedo, Lecce 2002); L’altra Venezia (Garzanti 2003); Un’Europa maledetta (Baldini e Castoldi, Milano 2005); La prefazione al Meridiano Mondadori dedicato a Ivo Andrić: (Andrić Ivo, Opere, Milano, Mondadori); R come Religioni, in Massimiliano Finazzer Flory (a cura di), Il gioco serio dell’arte, Milano, Rizzoli, 2008; Pane nostro (Garzanti, Milano 2010)

Stari Most ricostruito. Foto del 2004

Nota – Lo Stari Most (“Il Vecchio Ponte”) è un ponte del XVI secolo appartenente alla città di Mostar, in Bosnia ed Erzegovina, che attraversa il fiume Narenta per unire le due parti della città che esso divide.
Il ponte venne distrutto dalle forze croato-bosniache nel corso della guerra in Bosnia, la mattina del 9 novembre 1993.
Immediatamente venne messo in moto un progetto per la ricostruzione, che cominciò alla fine delle ostilità e terminò il 22 luglio 2004.

 

[Come ho conosciuto l’italiano (2). Fine]

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