Personaggi ed Eventi

Le vicende belliche di Filippo Muratore (6)

di Antonio Usai

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Il “campo” di Coltano passa sotto la giurisdizione italiana

Il servizio di custodia del “campo” fu assunto dai militari del 509° Btg. del 3° Rgt. Guardie, comandati dal colonnello Francesco Marinari, il 30 agosto del 1945, mentre la vigilanza interna fu affidata ad un reparto di Carabinieri.

Con gli americani era partito anche il contingente austro‑tedesco, quello dei famigerati kapò.

Nelle cucine, il personale tedesco fu sostituito da internati pratici di mense militari. Gli italiani confermarono il diritto alla razione doppia di cibo per chi lavorava nei servizi, quindi anche per Filippo.

Il menù era cambiato, forse divenne anche migliore, ma la fame dei prigionieri era lungi dall’essere domata!

L’arrivo dei soldati italiani, la sostituzione della bandiera a stelle e strisce con il tricolore, la fine di assurde restrizioni e il cibo nostrano misero di buon umore i prigionieri, specie quelli che non avevano nulla da farsi perdonare. Gli altri erano angustiati dal pensiero di dover rendere conto, prima o poi, delle proprie malefatte alla giustizia civile o militare.

Il nuovo comandante favorì un clima più disteso nel “campo” e, a partire dal 3 settembre, permise agli internati di ricevere posta e pacchi dai familiari.

Filippo, però, neanche dopo quel provvedimento ricevette pacchi o notizie da Ventotene.

Nella sua famiglia regnava il pessimismo più nero e alla speranza stava subentrando la rassegnazione. La guerra era finita da circa sei mesi e non si spiegava la totale assenza di notizie su quel figliolo. Con il passare dei mesi, si arrivò a temere che fosse morto nella guerra civile o per mano dei partigiani, nei giorni convulsi del dopo Liberazione.

Infine, il 20 settembre 1945, il Ministero della Guerra decretò la chiusura il “campo” di Coltano. Il provvedimento doveva diventare operativo entro il 15 di ottobre. Con lo stesso dispaccio, fu comunicato ai Comandi militari competenti la costituzione di trentuno Commissioni “discriminatrici”, con il compito di accertare la posizione dei singoli internati: una per generali e colonnelli; una per tenenti colonnelli e maggiori; cinque per ufficiali inferiori e ventiquattro per sottufficiali e truppa.

Era prevista la liberazione di tutti i prigionieri, ad eccezione degli ex appartenenti alle forze armate repubblicane che si fossero macchiati di crimini.

La mattina del 25 settembre entrò nel “campo” un nutrito gruppo di ufficiali superiori dei ricosti­tuiti Regio Esercito, Regia Marina e Regia Aeronautica.

Ogni internato pensava, con gioia mista a preoccupazione, all’imminente liberazione, al ritorno a casa, al Paese distrutto dalla guerra, al lavoro lasciato, agli studi interrotti!

Dalle poche notizie filtrate attraverso canali clandestini, i prigionieri erano venuti a conoscenza della mattanza, ancora in corso, contro i fascisti che avevano ricoperto ruoli di responsabilità durante il regime.

Nell’Italia centro-settentrionale, la caccia al fascista da parte dei vincitori più radicali, era considerata un’opera meritoria. I prigionieri di Coltano con la coscienza sporca, temevano di essere ammazzati una volta tornati liberi. Perciò, non avevano fretta di uscire.

Le Commissioni si misero subito al lavoro e cominciarono gli interrogatori dei prigionieri. Erano interessate principalmente ai trascorsi militari di ciascuno di essi. Chiedevano il nome dei reparti di appartenenza e quello dei comandanti; indagavano sull’eventuale partecipazione ad operazioni di rastrellamento e, in caso di risposta positiva, accertavano il ruolo ricoperto.

Il 29 settembre uscirono liberi i primi 800 prigionieri.

 

Filippo fu interrogato proprio in quei giorni. Non gli contestarono nulla di particolarmente grave. Era stato un semplice legionario della GNR, un cosiddetto “pesce piccolo”, che aveva aderito alla Rsi quando non aveva neppure 17 anni, perciò aveva poco da temere!

Due notti prima del suo rilascio, a Coltano si scatenò un forte temporale: un diluvio di pioggia e grandine, che aveva ridotto il “campo” in un immenso pantano. I prigionieri dovettero trascorrere l’intera notte svegli, senza neppure potersi sdraiare sul terreno fangoso.

Il mattino seguente, un vento gelido di tramontana proveniente dalle Alpi Apuane ricoperte dalla prima neve autunnale, investì quei poveri dannati, fradici per il temporale notturno, con i piedi scalzi nel fango e con una coperta militare a ricoprire le spalle per proteggersi dal freddo.

 

La liberazione e il ritorno a casa

La mattina del 5 ottobre del ’45, Filippo fu rilasciato insieme ad altri sei internati. Ricevette una razione di viveri, uno sfilatino e una mela; una modesta somma di denaro, quindici lire, e un biglietto che autorizza­va il viaggio in ferrovia fino al luogo di residenza.

Tornati in libertà, prima di recarsi alla stazione ferroviaria di Pisa, gli ex internati erano soliti recarsi a piedi all’Arcivescovado, per avere le prime notizie sull’Italia uscita stremata dalla guerra.

Negli uffici della curia, i più fortunati trovavano in deposito lettere spedite dai loro familiari e mai consegnate. Per tutti, c’erano sempre un piatto di mine­stra calda e capi di vestiario usati, utili per passare inosservati durante il viaggio di ritorno a casa.

Anche Filippo, prima di salire sul treno per Roma, pensò bene di passare con i suoi compagni dagli uffici dell’Arcivescovato. Giunto nella capitale, appena ebbe la certezza di poter viaggiare gratuitamente senza limiti di chilometraggio, anziché dirigersi a Ventotene, decise di proseguire per la Sicilia, con l’intenzione di incontrare i nonni, che non vedeva da tanti anni.

Trascorsi alcuni giorni di serenità in casa dei parenti, decise di tornare a Ventotene. Riprese il treno, attraversò lo stretto di Messina e, dopo un lungo viaggio in carrozze sgangherate, affollate di povera gente, giunse spossato alla stazione di Napoli. Al molo Beverello s’imbarcò sul vecchio piroscafo della SPAN che aveva sostituito il Santa Lucia sulla linea Napoli-isole pontine dopo l’affondamento di quest’ultimo ad opera degli inglesi. La nave fece un breve scalo ad Ischia. Filippo ne approfittò per sgranchirsi le gambe in banchina, ordinare un caffè al bar e fumarsi una sigaretta. Poi, il postale riprese il viaggio e giunse a Ventotene che era già buio.

Veduta aerea del porto di Ventotene

Veduta aerea del porto di Ventotene

Al minuscolo porto dell’isola, il giovane era atteso da tutta la famiglia. Andrea e Filippa, dopo ventotto mesi potevano finalmente riabbracciare quel figlio che per lungo tempo avevano creduto morto.

Nell’immediato dopoguerra, come se non ne avessero avuto abbastanza di armi e di divise militari, i giovani della classe del 1926 ricevettero la cartolina precetto dal nuovo Esercito della Repubblica italiana. Filippo fu destinato a Verona, la città che aveva ospitato il processo ai cosiddetti “traditori del 25 luglio”, dove aveva fatto la ronda armata con la divisa di carrista della “Leonessa”.

Nella città di Giulietta e Romeo rimase per tutta la durata del servizio di leva, che coincise con l’anno 1948.

In barba all’antifascismo delle nuove Forze Armate democratiche nate dalla Resistenza, grazie all’esperienza nell’uso delle armi, acquisita combattendo nelle fila dei repubblicani di Salò, Filippo ottenne il grado di caporale istruttore ed ebbe modo di farsi apprezzare dalle numerose reclute che frequentarono quel Centro di Addestramento.

 

 [Le vicende belliche di Filippo Muratore (6) – Continua]

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