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Sul dialetto ponzese (4). Il Vèfio.2

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a cura della Redazione

Per l’articolo precedente, leggi qui [2] 

 

Continua, Vittorio Parascandola nell’introduzione di suo libro “Vèfio – Folk-glossario del dialetto procidano”:

(…) Ho scritto queste cose provandone diletto e mi auguro che, a leggerle, anche i miei concittadini provino qualche piacevole sensazione. Spero che — come più evidenti risultano le bellezze di un panorama quando lo si guardi nei dettagli di una fotografia — i Procidani possano trovare in « Vèfio » la musicalità del dialetto di cui ho fatto cenno, che sfugge quando lo parliamo normalmente tra noi.
Una musicalità che risalta dalle variazioni dei plurali e dei femminili nel corpo della parola anziché in fine; dalla coniugazione del verbo e da una sorta di inventiva continua nella formazione della frase. Quella, ad esempio, per cui l’aggettivo numerale « Duje » (due) e anche « doje » ma in certi casi suona « Ruje o roje » e, talvolta, « raja » come nell’espressione: « Roja rete re vino » (due dita di vino).
Per questo ho ritenuto interessante riportare i plurali, i femminili e coniugare certi tempi dei verbi, più tipici foneticamente. Ma mi auguro che le mie divagazioni risultino di un qualche interesse anche per il forestiero che capita tra noi. Forse con la lettura di «Vefio » potrà conoscerci meglio, al di là di luoghi comuni, nati da giudizi superficiali ed approssimativi, da carenza di informazione o — purtroppo — da vecchie rivalità campanilistiche.
Ho cercato — a tal fine — di riportare quante più locuzioni caratteristiche, quanti più proverbi, nostrani o detti alla maniera nostra, a mia conoscenza; ho abbondato nelle frasi esemplificative ed ho accennato ad usi e costumi, cercando ii pretesto per fare riferimento anche a qualche fatto storico.

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Perché è dalla frase, dal discorso, che emergono le note più tipiche di un idioma ed è dagli usi che si può conoscere il carattere, la cultura di un gruppo etnico. Riterrei — in ogni caso — di non aver fatto cosa inutile, quando mi fosse dato di constatare che i miei paesani hanno tratto godimento a leggere di nostre vecchie usanze: i più vecchi con un pizzico di piacevole nostalgia, al ricordo di superati giochi di infanzia o giovanili esperienze; i più giovani con disincantata curiosità che, forse , farà loro scoprire un mondo non del tutto privo di interesse.

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Non ho inteso cimentarmi in opera di cultura e non ho avuto la possibilità di attingere a fonti letterarie. Mi sono, perciò, rifatto a quanto ho potuto apprendere dalla viva voce, dalla tradizione orale e ho cercato di rendere – il più possibile fedelmente il suono delle parole. Ma dubito — sinceramente — di esserci riuscito, per la difficoltà di trasportare in segni alfabetici certi suoni che solo la voce riesce a rendere.
Ho scelto i vocaboli più tipici avvalendomi, in modo particolare, della conversazione con le più vecchie tra le mie clienti, quelle che — per non essersi mai mosse, non dico dall’Isola, ma nemmeno dalla « grancìa » — hanno conservato più autentico il parlare dei nostri padri. Questo, se mi ha consentito di attingere alle fonti più genuine, è più che probabile mi abbia indotto in errori.
Non è facile, infatti, cogliere la fonetica di un vocabolo pronunziato da una vecchietta incolta e, tanto meno è agevole renderne graficamente il suono. In linea di massima ho cercato di non riportare le parole di uso comune, che si differenziano dal dialetto napoletano solo perché noi usiamo la « e » attica al posto della « a » dorica, per cui diciamo « mena » al posto del napo-letano « mana » e « chepa » invece di « capa »; ma ho voluto fare eccezione per quei casi in cui la parola mi offriva lo spunto per fare riferirnento alla notiziola storica, all’aneddoto curioso, alla locuzione o al proverbio e — in una parola — a quello che mi è sembrato l’autentico colore locale (…).

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Dalla prefazione di Mario Stefanile (ibidem) :

… uno dei sempre più rari esempio di fedeltà a un ideale di piccola patria da difendersi dalle facili ironie e dalle volgari disattenzioni da parte di chi non riesce a vedere, nelle testimonianze del folclore i succhi indispensabilmente vivi di tanta realtà sociologica…

(…) Intitolando “Vefio” (che in dialetto di Procida significa appunto “il muretto di terrazzi e loggiati” dal quale ci si sporge) questo suo glossario, implicitamente a noi sembra che il Parascandola abbia voluto proprio indicare ciò al quale ci si può con fiducia appoggiare per sporgersi appunto incontro al vario e incantevole paesaggio, alla selva di gente e di cose che via via si può andare rintracciando e individuando nella storia del folclore procidano…

…un allargamento dal campo meramente linguistico e glottologico a un campo che più ampiamente si può definire demo-psicologico e che coinvolge quindi numerose e vaste esperienze culturali, di carattere storico, geografico, sociologico…

… E direi che in questa fatica c’è continua l’atmosfera dell’amor di patria, non certo la sdolcinata mandòla dei retori, ma un orgoglioso ritmo di consapevolezze civiche e di responsabilità culturali, per cui la sola bugia detta e ripetuta nella introduzione dello stesso Autore è che egli non ha inteso cimentarsi in opera di cultura…

(…) Un bel risultato, direi, infine, tale da richiamare sul volume ricco non solo di pagine e di tavole fuori testo ma di intrinseca affidabilità, l’attenzione anche dei dotti specialisti: i quali, dalle rapide e scarse indicazioni di un Wolfs o di un Devoto, ad esempio, potranno essere condotti ad arricchire proprio con la guida garbata e puntuale di Vittorio Parascandola la loro conoscenza di una civiltà procidana di cui il dialetto rappresenta l’aspetto diretto, inequivocabile e forse più suggestivo.

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Da “Il vèfio”:

Abbìata: l’inizio; l’abbrivio per un’azione di movimento. Non è questa la posizione alfabetica del vocabolo: mi si perdoni la licenza. Mi piace dargli il primo posto del glossario, perchè sia di buon auspicio per questa mia fatica-divertimento e di augurio per i lettori che prenderanno… l’“abbiata” a leggermi.

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Abbabbìeto: femm. abbabbìata (part. agg.): confuso, stordito; reso incapace di pensare.

Dal verbo “abbabbìà” che qui conviene coniugare, nei tempi più tipici come esempio di verbo della prima coniugazione. Al pres. ind.: “Je abbabbèjo, tu abbabbìje, jsso abbabbèja, nuje abbabbiàmmo, vuje abbabbiète, ddòre abbabbèjene”.

(…) La qualifica di “Abbabbìeto” si dà a chi si è lasciato incantare dalle sottili arti fascinose di donna – più o meno giustamente – discussa nell’ambito paesano (dal lat. babius).

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Becchiéro: Bicchiere.

Famigerato il “Bicchierìno” (dim.) che veniva offerto all’ospite con piccola dose di “rosò” (rosolio) o di “verdulìno” (vd.): i non rimpianti liquori preparati in casa col “buttuncìno re sènzo” (bottiglia di essenza). Sempre gradevole invece, il “beccheruòzzo” (accr.); il buon bicchierotto di vino genuino.
Si fa “lu becchìero” per il “sòle ‘n chèpa” (insolazione) e si fa quello per il sortilegio amoroso. Ancora oggi c’è chi giura che l’acqua fresca, contenuta nel bicchiere poggiato sulla testa del colpito dall’insolazione… va in ebollizione e fa guarire; e c’è chi è pronto a credere che “lu becchièro fètt’a mestière” (l’intruglio fatto ad arte) fa irrimediabilmente ammalare, d’amore.

Dalla Introduzione e Presentazione sopra presentate, sono più che evidenti le correlazioni del dialetto di Procida con il nostro ponzese, per la matrice comune linguistica e antropologica. Se non bastasse, può appunto servire il piccolo aneddoto sopra riportato nel libro, a proposito del bicchiere che bolle sulla testa della vittima di un’insolazione, con l’episodio simile raccontato da Silverio Lamonica  – leggi qui [9]– per dissipare il dubbio che è dello stessa gente – credenze, tradizioni e cultura – che stiamo parlando.

Nei prossimi articoli torneremo al ‘ponzese’ e ai suoi imprevisti… gioie e dolori!

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Nota di Redazione
Le foto e le didascalie sono riprese dal libro in oggetto (cliccare sulle immagini per ingrandirle)

 

[Sul dialetto ponzese (4) – Continua]