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Oltre Ponza: in giro per isole. Procida (7)

 Per l’articolo precedente (6), leggi qui [1]  

[2] di Rosanna Conte

Per completare la passeggiata nella parte antica di Procida bisogna recuperare il Casale col Casalieddo; e in più, la Vigna e la Violella che portano alla Punta della Lingua.

Il Casale Madonna delle Grazie, oggi Vico 1° Principe Umberto, è situato sulla destra di chi sale per arrivare dal porto a Semmarezio e, come suggerisce il nome, è nato con la vicina piazza che già conosciamo e da cui dista una cinquantina di metri.  [3]
Verso di essa si spande col Casalieddo, che è un insieme di vicoletti stretti e ingarbugliati da cui si sbuca direttamente nello spassigge. Fra le costruzioni della Corricella e quelle presenti in questo angolino di cinquecento metri quadrati, sembra di entrare in una kasba, che è il nome delle cittadelle arabe fortificate, ma nella nostra mente è principalmente un dedalo di stradine in cui è difficile districarsi. [4]
Questo richiamo non è gratuito. I rapporti col mondo arabo sono stati drammatici per i procidani, come per tutte le popolazioni costiere ed isolane, specie nei secoli XV e XVI: i corsari barbareschi distruggevano tutto, depredavano le comunità, uccidevano e deportavano uomini e donne validi che venivano venduti come schiavi. Le arciconfraternite sorte in questo periodo avevano tra le finalità anche quella del riscatto degli schiavi cristiani, specie di quelli più poveri per i quali le famiglie non avevano denaro da offrire in cambio della libertà. La raccolta di fondi destinati a questo uso poggiava su un forte senso di solidarietà che la chiesa tutelava e la comunità trovava conveniente perché poteva succedere a chiunque di ritrovarsi schiavo nei paesi del Maghreb o dell’impero ottomano.
Da queste esperienze orribili i procidani hanno, però, tratto conoscenze che, una volta tornati, hanno rielaborato, specialmente le donne che, rinchiuse negli harem, a contatto con donne di altre nazionalità, prevalentemente magrebine e turche, hanno potuto affinare il loro gusto del bello tra i giardini lussureggianti, ricchi di fiori e fontane, e i lavori femminili fatti con tessuti pregiati abbelliti con ricami preziosi. Probabilmente è negli harem che queste donne hanno imparato anche a leggere il quatriddo, – sistema divinatorio in uso a Procida almeno fino ad una settantina di anni fa’- che era costituito da una sorta di piccolo quadro in cui era conservato un pezzetto di velo della Madonna, credenza popolare di forte richiamo all’icona bizantina della Madonna dei sette veli, infatti era chiamato più estesamente “quatriddo re li sètte véli”.Ricordiamo che, come ho già scritto in precedenza, i giardini tradizionali procidani hanno il tocco del buongusto e, per come sono custoditi da muri alti e portoni chiusi, della segretezza.


Ma se vogliamo trovare una scia ancora più indelebile di quelle esperienze nei mondi islamici, osserviamo con attenzione il costume della donna procidana, quello che oggi indossano le ragazze per l’elezione della Graziella, di cui abbiamo già parlato.(leggi qui [5])
Intanto ha il cappottino, una caratteristica unica nel panorama dei costumi regionali italiani, ed il suo taglio è prettamente orientale come si può dedurre dal testo “Oriental costumes” di Max Tilke, un grande etnografo tedesco che, a cavallo fra ‘800 e ‘900, ha studiato proprio i costumi orientali dipingendoli e illustrandoli.

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Esso deriva dal djubbeh nord africano in seta o velluto ricamato in oro e argento, aperto sul collo fino al petto e con le maniche lunghe ma aperte e dotate di bottoncini e nastri; questo capo aveva i tagli laterali da cui spiccavano i pantaloni e le donne usavano portare uno
dei due lembi laterali sul braccio.
Il cappottino procidano è anch’esso impreziosito da ricami particolari di origine turca e magrebina, le “cocciole”, cioè le lumache, realizzati con un filato di oro pregiato difficile da tessere per la sua durezza. Inoltre, ha i bottoncini sui laterali delle maniche ed ai due lembi del bordo ha dei laccetti che consentono di tirarli su legandoli all’indietro.
Tutto aperto sul davanti, quando veniva usato, era di colore verde per le donne adulte e rosso per le giovani.                                                                                                                                                                                                                                                                                         

     
           L’abito è costituito da un corpetto di raso o velluto attaccato alla gonna di seta pesante, leggera o di cotonina. I colori più diffusi del corpetto sono il rosso carminio e il verde smeraldo e contrastano col colore della teletta di cotone di cui sono foderati. A forma di gilet dal taglio orientale, finisce sotto il seno con un’apertura frontale che fa vedere un bustino a scollo tondo dello stesso colore. I pannelli frontali del bustino sono impreziositi da ricami in oro.

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A protezione dell’abito ci sono il grembiule di seta scura che, allacciato con un nastro giusto sotto il corpetto, arriva a circa venti centimetri dall’orlo della gonna, e lo scialletto di seta bianca che copre il collo e finisce nel corpetto. Come scialle c’è anche quello più ampio e frangiato che copre le spalle e il busto. Sulla testa c’è un ampio foulard di seta o mussola indiana bordata d’oro; per le ragazze è di lino leggero.

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La calzatura usata, visibile nelle riproduzioni litografiche dell’800, è la ciabatta con tomaia di seta foderata e a volte riccamente ricamata.

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I  procidani hanno una grande cura di questa loro tradizione che vivificano ogni anno con l’elezione della Graziella durante la Sagra del mare. Negli ultimi anni una serie di lezioni di esperti nelle classi del Liceo Linguistico isolano miranti a risalire all’identità storica dell’isola ha prodotto il volumetto “L’oro del mare”, a cura di C. Sarnico e E. Montaldo.
Ma si è fatto ancora di più, poiché l’abito è stato rivisitato da Elisabetta Montaldo, costumista procidana figlia d’arte di cui abbiamo già parlato, e delle artigiane locali esperte di cucito e ricamo hanno prodotto, utilizzando la preziosa seta di San Leucio e il filato d’oro, un prototipo col cappottino verde che ha costituito il cuore di una mostra itinerante che nel 2011 ha girato per la Campania ed è arrivata fino a Roma. Adesso è in cantiere la produzione dell’abito con cappottino rosso. (per saperne di più http://procida.blogolandia.it/2011/05/30/graziella-tipico-abito-procidano/ [10])
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[12] L’uso così diffuso della seta a Procida nei secoli passati non deve meravigliare, perché sull’isola si allevava il baco. Erano proprio le donne a covare i filugelli dei bachi nel proprio seno e a lavorare il filo prodotto. Oltre che per i tessuti, la seta era usata per le reti, in particolare costituiva il filo a cui si legava l’amo, il “pilo” resistente e trasparente. Fino ai primi del ‘900 pescatori di tutte le razze andavano a comprarlo a Procida, come ricorda Toti Scialoja in Procida di G. Cosenza – M. Jodice. Non solo, ma i fili meno buoni venivano mandati a Milano per farne spazzolini da denti.
I gelsi procidani sono bianchi ed i frutti hanno un sapore del tutto diverso da quelli scuri, presenti a Ponza. Ricordo ancora il venditore ambulante con la sua cesta che dava la voce: ” re cenze’!!.. re cenze’!!”; ma io pensavo con nostalgia ai cieusi ponzesi molto più saporiti! 

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