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L’antica cultura contadina isolana. Le colture tradizionali e i cambiamenti successivi. (4)

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di Mimma Califano

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In altri tempi, nella conduzione tradizionale del proprio campo, non solo bisognava saper scegliere e conservare i semi ma anche il tempo per la semina.

L’elemento più importante tra tutti gli aspetti che andiamo a considerare, che potrebbe non essere percepibile nel corso dalla semplice elencazione ma che invece accompagna e fa parte integrante di tutto il ciclo agricolo, è la specificità del luogo. Ne risultano condizionati:
–  la tipologia di produzione: pomodori e non erba medica, per esempio;
–  le tecniche produttive: compost e concime organico e poco o niente sovescio;
–  i tempi di produzione: come la scarola d’inverno e le zucchine ad inizio estate.
Sono le modalità produttive che quest’isola ha dettato ai suoi abitanti, e che i nostri contadini hanno saputo leggere, sperimentare e porre in atto anno dopo anno.

Il calendario delle semine era perciò specifico dell’isola.
Si dice, ancora oggi, che le fave si seminano al più tardi il giorno dell’Immacolata – 8 dicembre -; piselli, cicerchie, lenticchie, etc, a metà-fine gennaio:  prima no … Fai sule paglia! – si diceva …Vuol dire che le piante fanno molta vegetazione ma pochi fiori e di conseguenza baccelli.

Occasionalmente questi tempi possono essere di poco variati, o comunque condizionati, da annate particolarmente piovose e/o fredde, o secche.
In quest’ultimo caso, i legumi erano tenuti a bagno per un giorno prima di metterli a dimora e/o si ritardava la semina di una due settimane.

Da quel che mi è stato riferito, per la semina dei legumi non si teneva conto del calendario lunare, cosa che invece avveniva per la semina dei prodotti orticoli.

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L’influsso della luna sulla crescita delle piante era e resta un argomento piuttosto controverso. Consideriamo le teorie e i fatti in campo e poi torniamo ad esaminare qualche comportamento ponzese.

In passato si credeva che fosse soprattutto l’effetto gravitazionale della Luna sulla Terra a produrre effetti sui liquidi delle piante. Questa teoria è quella attualmente meno accreditata, poiché gli studi hanno dimostrato che la gravità è rilevante solo in presenza di grosse masse, come infatti succede per le maree; ma al diminuire della massa si riduce anche l’effetto di attrazione.

La teoria che invece attualmente trova i maggiori consensi, sebbene non ancora con unanimità di vedute, riguarda la luce lunare. Vediamo come.

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La luce lunare non è altro che la luce solare assorbita e riflessa sulla terra, quindi si potrebbe immaginare molto debole. In realtà studi di laboratorio hanno dimostrato che la luce lunare penetra nel terreno per parecchi centimetri favorendo la germinazione dei semi. Inoltre, sempre secondo questi studi, la luce notturna è facilmente assimilata dai vegetali e va a sollecitare i ricambi nutritivi che presiedono alla crescita, in buona misura inibiti dall’eccessiva intensità dalla luce solare.
Inoltre la gamma dello spettro luminoso dei raggi lunari non è ostacolata dalle nuvole.
In definitiva, in assenza di luce lunare, i vegetali non riuscirebbero a metabolizzare perfettamente e andrebbero incontro a sintomi di alterata nutrizione che si manifestano con una crescita stentata e con un ritardo di maturazione. All’osservazione effettuata su piante private della luce lunare si sono potuti constatare: fusti più fragili, cerchi legnosi più spessi, vegetazione meno florida e minore resistenza agli attacchi dei parassiti (1).

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Resta comunque indubbio che generazioni di contadini di ogni parte del mondo per secoli hanno fatto largo uso del calendario lunare per la gestione di quasi tutte le loro attività, allevamenti degli animali compresi, pur non adottando tutti i medesimi criteri.

Una regola generale per le piante da orto può essere così sintetizzata: “…tutto ciò che deve crescere in altezza va fatto con luna crescente, tutto ciò che deve crescere moderatamente o fermarsi va fatto con luna calante” (2).

Ripensando a quanto si faceva e in parte si fa ancora a Ponza, sembra che fosse proprio questo il criterio utilizzato. Poiché si dice che pomodori, peperoni, melanzane si piantano con luna crescente, particolarmente quella di febbraio se l’annata non è fredda, altrimenti in quella successiva. Altre specie come cappucce, aglio, cipolle, con la luna decrescente, se no ‘spigano’.

Per quanto riguarda la potatura, la tradizione consiglia di potare in luna calante; in questo periodo infatti la circolazione della linfa è ridotta, quindi la vite ‘piange’ di meno. L’emissione di linfa (il pianto) è legata all’incapacità della vite di cicatrizzare le ferite.
Ovviamente questi aspetti sono superati dalla maggior importanza che riveste invece il “periodo” della potatura. Se questa viene troppo ritardata e arriva a coincidere con la montata della linfa, luna o non luna, essa fuoriesce più abbondante, indebolendo la pianta stessa.

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I semi venivano posti in grossi vasi o cassette, ’i ’pécie – riparate dal freddo e/o con una base di letame (che sviluppa calore); spesso bisognava avere l’attenzione di scoprirle nelle ore calde e soleggiate, e di proteggerle nei giorni di freddo.
Come passaggio successivo, una volta diventate le piantine di dimensioni adeguate, s’avevena spastena’, ovvero trapiantare a dimora definitiva.

Un discorso a parte per le zucchine e le carote (le ‘carote’ ponzesi!): secondo la nostra tradizione queste vanno seminate con la luna piena di marzo. Altrimenti, si dice… se scàutene.  Vuol dire che un’alta percentuale dei frutti non ha uno sviluppo  regolare e diventa inutilizzabile.

Questo elenco è per lo più indicativo di alcuni comportamenti che in parte ancora oggi vengano adottati, anche se i dettagli sono andati persi, essendo venuta a mancare proprio l’attività contadina, tradizionale o meno.

Ma anche gli alberi e i vitigni erano “figli” di piante già esistenti sull’isola. Ottenere nuove piante era più laborioso e il processo più lungo ed incerto di quanto non sia oggi.

Se adesso si vuol impiantare una nuova vigna, piccola o grande che sia, basta comprare le barbatelle. In commercio si trovano nuove piante ottenute da innesto su un porta-innesto – di solito la vite americana (resistente alla temibile filossera) – di marze, i schiuopp’ – del tipo di vitigno che si preferisce.
Dopo tre/quattro anni, a volte anche meno, le piante iniziano a produrre. Prima ci volevano anche cinque o sei anni e la percentuale di attecchimento era decisamente più ridotta.  Certo i vantaggi a prima vista  sono evidenti. Tuttavia questi vitigni, come si sviluppano in fretta cosi decadono prima, con una vita massima sui 25 anni, mentre a Ponza ci sono viti centenarie (!) che continuano a produrre, a volte anche in condizioni di abbandono. Non è raro, tra i rovi, veder penzolare un grappolo d’uva o dopo avere ripulito una catena abbandonata da decenni riportare in produzione un filare di viti. Le caratteristiche di queste piante sono tali e le loro radici entrate cosi in profondità nel terreno che riescono a sopravvivere anche in condizioni estreme.

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Fattore tipico nell’impianto di un nuovo vitigno era u scass’.  Con questo termine ci si riferiva ad un solco profondo anche  più di un metro e largo abbastanza a che un uomo ci potesse lavorare dentro. U’ scass’ serviva a rendere morbido il terreno dove poi si andavano ad impiantare le nuove viti, per  facilitare l’estensione delle radici.

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Non più semplice era la riproduzione degli alberi da frutta. Per qualche specie, come le amarene, bastava prendere i polloni radicali. Per alcuni, come il nespolo, i semi. Per altre specie, come il fico, si procedeva per ‘talea’. Le viti si potevano riprodurre anche per ‘propaggine’, interrando un tralcio più lungo a breve distanza dalla pianta madre.
Spesso poi bisognava saper intervenire con gli innesti.

Anche qui, buona parte dei saperi, non più tramandati e applicati, sono andati definitivamente persi.

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Fondamentale era la battaglia con i vari insetti che attaccano le piante. Nelle stagioni di infestazione era un continuo rimandarsi la voce da un podere all’altro su cosa aveva attaccato le piante stavolta, e su come fronteggiare la minaccia. ‘I pimmece d’i pummadore (le cimici) diventavano l’argomento del giorno.
In assenza di qualsiasi tipo di insetticida commerciale, i nostri nonni spruzzavano, sulle piante da difendere, un decotto di ortiche messe a macerare in acqua per pochi giorni. Anche l’acqua maleodorante ottenuta con i mozziconi di sigarette tenuti a macerare era utilizzata per spruzzare le piante (attiva contro tutti gli insetti); per le infestazioni più leggere andava bene una soluzione di acqua e aceto. Zolfo, verderame e calce erano gli unici prodotti ‘chimici’ utilizzati.

Problemi di lumache non esistevano; anzi esistevano, ma venivano risolti con l’applicazione della massima di “prendere due piccioni con una fava”: erano attivamente ricercate e diventavano un pranzo succulento… Chi non è mai andato da bambino a truva’ ‘i mmaruzze, dopo la prima pioggia che faceva?

Le avversità ambientali ovviamente rendevano incerti i risultati del proprio lavoro e in alcuni casi condizionavano la scelta di ciò che era opportuno produrre, con minor fatica e risultati migliori. Come è il caso degli alberi di pesche, non troppo diffusi poiché questa pianta è particolarmente soggetta agli attacchi di diversi insetti nocivi e altre avversità (specie ‘la bolla del pesco’).

 

Ma ritorniamo alla domanda  formulata all’inizio.
Che cosa è successo quando, non solo mio zio, ma la maggior parte dei contadini dell’isola ha pensato di smettere con la riproduzione ‘in proprio’, e di fare meglio, cominciando a comprare i semi e/o le piante?

 

Note

(1)  – Il gran libro dell’orto con calendario lunare di Margherita Solari. Ed. Libritalia

(2)  www.informatoreagrario.it/ita/Riviste/Vitincam/08Vc03/12047.pdf [10]

 

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