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Le due velocità

[1]

di Enzo Di Giovanni

 

Bene ha fatto Mimma a fare il “sunto della situazione” (leggi qui [2]). Che poi, non ricalca altro che le tematiche che ci raccontiamo da quando esiste Ponza racconta, perché non facciamo che chiederci cosa sia successo a noi ponzesi. Soprattutto cosa siamo diventati nel tempo, se siamo diventati qualcosa di definibile.

L’unico tratto distintivo pare continuare ad essere il mito del ponzese fai-da-te, che mal sopporta le regole, e che fa dell’arte di arrangiarsi il suo “sogno americano”.
Forse ciò era percorribile nel passato, in un lontano passato, quando arrangiarsi era effettivamente l’unica strada percorribile per sopravvivere in un mondo ostile, dove i bisogni primari erano gli unici esistenti, e dove concetti come qualità di vita e servizi pubblici erano ancora al di là da venire.
Questo modello è stato poi esportato con “successo” dai nostri emigranti, quelli di prima generazione, costretti a vivere nei paesi d’adozione con difficoltà se possibile spesso maggiori della miseria che lasciavano: la distanza dal resto della famiglia, condizioni di lavoro durissime, il caporalato.
Ovviamente sempre con l’arte di arrangiarsi, magari facendo più lavori. Passando dalla pesca all’edilizia, al commercio, senza alcuna preparazione di base. Anni difficili, che fanno parte del dna delle nostre famiglie e che non dobbiamo dimenticare.

Eppure, in questa apparente fragilità vi era una forza, una identità che non abbiamo più, al punto da sentire spesso che “Ponza nun è chiù ’a nost”.

Accade infatti che nella Ponza contadina vi era più controllo del territorio: perché era un tipo di attività in cui giocoforza si era costretti ad orizzonti territoriali più ampi del proprio personale. E nell’attività marinara più sinergie, più rapporti di lavoro collettivo. In una parola, era il lavoro stesso che spingeva a collaborare, perché era contestuale all’ambiente circostante.
“Si vedeva” che tenere in ordine sentieri e parracine, incanalare le acque piovane, era propedeutico al successo della propria attività. Si navigava a vista, certo, ma in questo navigare si riusciva ad avere, senza bisogno di progettualità, convegni e concertazioni, un quadro di riferimento evidentemente sufficiente ad un equilibrio tra la comunità e l’ambiente circostante. Persino la… raccolta differenziata funzionava meglio quando non c’era: nel senso che in una società in cui non si buttava niente, tutto era riciclabile fino all’estremo e per gli usi più disparati.

Ed ecco allora che l’anarchia “funziona”: una sorta di autoregolazione che ha prodotto la Ponza storica.

Quella in cui le regole erano prodotte non da leggi, non da programmazione, ma dal senso comune. Che è anche senso estetico. Oggi parliamo di Piano Colore, di Arredo Urbano, ma dimentichiamo che le nostre case, che tanto contribuiscono al successo dell’imprinting turistico sono venute su nei secoli in maniera disorganica, eppure assolutamente efficace. Perché assolutamente strutturate nel territorio, caratterizzanti al punto da essere relazionate da qualche studioso in un unicum spazio-temporale con le case-grotta andaluse. Chi penserebbe che l’unico assetto urbanistico di Ponza è quello di Carpi e Winspeare?

Cosa è successo col turismo?

La nostra economia non è più di pura sussistenza. Non è più strettamente legata a ciò che mare e terra producono. “Ponza non è chiù ’a nost”: appunto. Ma questo non perché ce l’hanno rubata.

Non siamo più padroni del nostro territorio semplicemente perché non viviamo più di esso.

Non possiamo essere più “anarchici”. Il passaggio dal primario al terziario evidentemente presuppone, se vogliamo sopravvivere, una programmazione prima non necessaria.

E noi non siamo in grado di elaborare alcun progetto che abbia ampio respiro. Mi si potrebbe dire che non è vero, che cose sono state fatte.
Vincenzo mi racconterà ad esempio del “progetto Castalia”. Ma io dico altro. Elaborare non solo sulla carta, ma nella coscienza collettiva. Senza questo passaggio di stato ogni sforzo sarà vano.

Non basta avere idee. Nemmeno se queste idee rappresentano istanze necessarie. Io stesso ho verificato questo aspetto quando, da consigliere comunale ho cercato qualche anno fa di interessare le associazioni culturali alla necessità di costruire, tutti insieme, un museo-laboratorio che aggregasse, che fosse il riconoscimento alla nostra dignità storica, che avesse pure una ricaduta turistica. Senza successo.

Colpa mia che non sono stato capace di lanciare il messaggio? Colpa di chi non è stato capace di raccoglierlo? Probabilmente nessuna di queste cose, almeno non in maniera decisiva. Probabilmente facciamo ancora fatica a passare dallo stato in cui l’iniziativa privata è sufficiente a connaturare un ambiente, a quello in cui l’iniziativa privata da sola non basta, in nessun ambito. Anzi, la concorrenza diventa pericolosa, perché se non regolata produce come minimo disordine, e alla peggio squilibrio economico e strutturale.

Siamo sempre lì: la battaglia da combattere è il passaggio dall’anarchia alla comunità.
E non basta ancora. Perché una comunità non deve essere in grado solo di progettare e realizzare modelli di sviluppo economico, ma anche di integrarli in uno sviluppo che sia permeabile, che tenga conto cioè, e coinvolga, tutti i comparti e le sfere di interesse che compongono la comunità stessa.
Per non correre il rischio giustamente paventato da Silverio Tomeo nel suo recente “Utopia, l’isola che non c’è” (leggi qui [3]) di passare da una comunità ad una azienda.

 

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