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Oltre Ponza: in giro per isole. Procida (5)

di Rosanna Conte

Per l’articolo precedente (4): leggi qui [1]

 

Visitata la chiesa, possiamo scendere in quello che oggi è il Complesso Museale, articolato su tre livelli.

Al primo livello, discesi diciotto scalini, ci  troviamo in una sala in cui è custodito un presepe con pastori di legno e di terracotta, in gran parte del XVIII secolo; a fianco c’è la cappella della Madonna del Rosario. Più avanti c’è la Biblioteca, ricca di ottomila volumi, alcuni a stampa, altri manoscritti; in fondo, infine, entriamo nella cappella di San Michele, sede della Confraternita di San Michele, detta anche dei Gialli, dove possiamo vedere una statua del santo risalente agli inizi dell’800 e un prezioso organo del XVIII secolo

Qui imbocchiamo una scala scavata nella roccia e, dopo aver disceso due rampe, arriviamo nella cappella di Sant’Alfonso, fino circa 50 anni fa, sede della Confraternita dell’Addolorata, fondata nel 1733 da S. Alfonso Maria dei Liguori, detta anche della Segreta o anche dei Rossi.

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Cappella di S. Alfonso con le bare per la sepoltura dei prelati morti

In questa cappella, oltre ad un organo del XVIII secolo e ad un dipinto di Domenico Guarino del 1746, “La deposizione di Cristo”, ci sono tre bare che servivano per deporre i prelati morti ed esporli alla venerazione dei fedeli in una specie di ‘camera ardente’. Ai lati delle bare ci sono dei fori da cui fuoriuscivano le mani dei defunti che i fedeli baciavano devotamente.

Da questa cappella possiamo accedere all’Ossario, il luogo in cui doveva sorgere il primo cimitero dell’isola. Una volta vi si scendeva attraverso delle botole di cui si possono vedere ancora le tracce. Qui, oltre alla fossa comune chiusa definitivamente nel 1968,  è ben visibile il luogo in cui i cadaveri venivano posti a “scolare” attivando il processo di mummificazione.
Il detto ponzese “puòzza scula’!” , che  una volta era molto usato come imprecazione e che attualmente indica per lo più sorpresa, ha in realtà una ben macabra origine!

Visto l’impianto dell’abbazia, sfido io che quando mio fratello tornava dalla celebrazione del rito dei defunti  faceva racconti un po’ macabri per le mie orecchie! Per circa quattro anni fu iscritto alla Confraternita di San Michele e nella cappella del Santo, oltre ai riti per i defunti della notte del due novembre, ci andava anche per le altre attività della Congrega, che erano diverse.

Le confraternite erano associazioni di tipo devozionale che, oltre a pregare, praticavano opere pie e di carità, e, a seconda dello statuto, godevano anche di alcuni privilegi, come la sepoltura dei confratelli nella sede della Confraternita; nel caso di Procida, nell’Abbazia. La loro funzione sociale, nei secoli scorsi, è stata rilevante perché tutelava gli iscritti e favoriva l’integrazione tra persone appartenenti a ceti  diversi attraverso il riconoscimento identitario della Congrega.

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Botola ‘Bianchi’ e botola ‘Turchini’

Ancora oggi a Procida esistono quattro confraternite che, una volta, avevano tutte sede nella chiesa di San Michele.

La più antica è quella dei Bianchi,  la Congrega del Santissimo nome di Gesù, del Santissimo Sacramento e delle Cinque Piaghe, fondata dal Cardinale Innico D’Avalos nel 1581, che attualmente si trova nella chiesa di San Vincenzo, dopo essere passata per quella di san Giacomo. È la Congrega che gestisce i riti del Giovedì santo.

Poi c’è quella dei Turchini, la Congrega dell’Immacolata Concezione di Maria Vergine, già presente sull’isola nel 1588, ma regolamentata dai Gesuiti nel 1629,  che attualmente si trova nella chiesa di San Tommaso d’Aquino, dove è custodito un prezioso Cristo morto in legno, scolpito nel 1728 da Carmine Lantriceni. È la Congrega che ha voce in capitolo per la processione del venerdì santo.

Della Congrega dei Rossi già abbiamo detto, bisogna solo aggiungere che, dagli inizi degli anni ’60 circa, fu trasferita nella chiesa di San Leonardo dal suo priore, all’epoca Nardino o tabaccaro.

La Congrega  dei Gialli, quella di San Michele, è la più recente; fondata da don Nicola Ricci alla fine dell’800, mantiene la sua sede nall’abbazia e, naturalmente, gestisce le festività connesse al santo patrono che, a Procida, si svolgono il 29 settembre, giorno previsto dal calendario per la festa dell’Arcangelo, e l’otto maggio, giorno del miracolo avvenuto nel 1535, quando il santo mise in fuga il pirata Barbarossa.
I colori richiamati nel nome delle Congreghe sono quelle delle ‘mozzette’ che i confratelli indossano sopra la veste bianca con cappuccio.

Procida è un’isola piena di festività religiose e di riti che si svolgono nelle otto parrocchie funzionanti e a cui partecipano tutti, al di là della grancìa di appartenenza.
La parola grancìa o grangìa deriva dallo spagnolo ed indicava il granaio, la fattoria, che si sviluppava intorno ad una chiesa.

Le otto grancìe procidane erano la Terra Murata con la chiesa di San Michele, la Corricella con la chiesa della Madonna delle Grazie, Sent’cò con la chiesa della Pietà, San Leonardo, la Santissima Annunziata (anche detta Madonna della Libera), Sant’Antuono, Sant’Antonio e la Chiaiolella con la chiesa di San Giuseppe.

Basta pensare che oltre alle festività comuni – Natale, Pasqua, Quarant’ore, Corpus Domini – ci sono anche quelle delle singole chiese, come San Ciro a S. Leonardo, S. Biagio e la Madonna della Libera nella omonima chiesa, San Giuseppe lavoratore alla Chiaiolella,  Madonna del Rosario a San Leonardo, della Madonna delle Grazie già abbiamo detto, Sant’Antonio nell’omonima chiesa.

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Le feste primaverili erano quelle che mi piacevano di più, come quella del Corpus Domini, perché in occasione della processione si aprivano i portoni delle case procidane; quei portoni sempre chiusi che sigillavano i muri delle strette stradine, custodi gelosi della bellezza dei giardini procidani, rigogliosi di fiori e frutta, armoniosi nella configurazione data loro dall’uomo.

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Procida. Giardini di Elsa

Già nell’ingresso si preannunciava l’eccezionalità dell’evento per l’addobbo fatto con  tappeti orientali, oggetti di antica fattura o esotici, come i samovar, piante bellissime in vasi enormi, e tutto il pavimento era cosparso di petali di rose. E sullo sfondo, si potevano intravedere i pergolati di glicini, i vialetti fiancheggiati da calle e le piante coltivate, dai limoni agli albicocchi, ai pruni. Era un tripudio di profumi, spesso mescolati con quello dell’incenso, e di colori.

A Procida, però, i riti della settimana santa sono i più attesi e il loro culmine va dal pomeriggio del giovedì santo al venerdì mattina con la Processione dei Misteri.

Nella sede dell’Arci-confraternita dei Bianchi, il giovedì pomeriggio, dodici confratelli in tunica con cappuccio consumano una cena simile a quella di Gesù, con pesce, agnello e pane azzimo e vino. Ai fedeli viene offerto il pane benedetto dal prete officiante, che esegue anche la lavanda dei piedi ai dodici apostoli; questo rito, una volta, prima di essere praticato anche nelle singole chiese, si svolgeva solo con  i Bianchi nell’abbazia di San Michele.

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Quattro momenti della Processione degli Apostoli 

Inizia quindi, la Processione degli Apostoli: scortati da un “centurione” con bastone e col cappuccio calato sulla testa, su cui è poggiata una corona di spine, i dodici confratelli escono in una fila ordinata, ma fra loro molto distanziati, con una croce nera sulle spalle, e si recano nelle chiese che trovano lungo il percorso per arrivare all’abbazia di san Michele.
I fedeli li aspettano lungo le strade in reverente silenzio o nelle chiese dove, appena arrivati, posano la croce davanti all’altare della deposizione (sepolcro) in cui è custodito il Sacramento, e si inginocchiano. Il priore che entra per ultimo in chiesa, dopo aver battuto quattro volte il suo bastone per terra, intona, seguito secondo le battute dai confratelli dai fedeli, l’antico canto liturgico:
Vi adoro ogni momento/ o vivo pan del ciel/ gran sacramento/ e sempre sia lodato/ il nostro buon Gesù sacramentato.
Al termine, il priore batte di nuovo quattro colpi a terra e gli apostoli riprendono le loro croci e proseguono.

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La Processione dei Misteri

Ma l’attesa più grande è per la Processione del venerdì, quella dei Misteri, un rito secolare che risale alle processioni spagnole cinquecentesche, importate dai Gesuiti, quando le strade erano percorse dai flagellanti, sostituiti nei primi decenni del settecento dalle tavole dei Misteri, cioè delle tavole costruite su strutture portanti in legno e ferro, lunghe non più di otto metri e larghe non più di due. Su di esse vengono rappresentate coi materiali più disparati scene del Vecchio e del Nuovo Testamento, seguendo le regole dettate dalla Congrega dei Turchini la quale, per l’iscrizione  del mistero alla processione, ne controlla  l’aspetto tecnico-costruttivo ed il contenuto, ma, ancora di più, dà i colori dominanti alla processione perché tutti i maschi partecipanti indossano la tunica con la mozzetta azzurra della Congrega, anche i bambini.

Già dall’inizio della quaresima, tutte le grangìe sono coinvolte nella loro preparazione e possiamo dire che essi, ormai, fanno parte dell’assetto genetico del procidano che è “educato” fin da piccolissimo a partecipare attivamente alla processione.

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Bambini che portano un ‘mistero’

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 L’arca di Noè

Ci sono prima le discussioni sulla tematica da trattare, che va dalle più semplici rappresentazioni – l’ultima cena, la pesca miracolosa, l’impiccagione di Giuda, la Samaritana al pozzo ecc. – alle creazioni allegoriche che vogliono leggere la realtà contemporanea – le guerre, il razzismo, il consumismo, l’emarginazione ecc. Quando le tematiche sono molto ricorrenti e frequenti nella stessa processione (es. l’ultima cena), si cerca di dare un tono personalizzato, introducendo novità che non sempre vengono apprezzate, ma che comunque sono accettate.

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Allegoria dell’abbondanza e del consumismo

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Allegoria della pesca miracolosa

Nel periodo di quaresima, sono tanti i portoni dove i ragazzi si riuniscono per costruire il loro ‘mistero’ che non deve essere visto da nessuno prima della mattina fatidica. È un rumore continuo di martelli, di discussioni concitate che culminano la notte del venerdì santo, quando bisogna portarlo sulla Terra Murata e, molto spesso, è qui che si dà l’ultimo colpo per completarlo.

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Fuori alla Cittadella dei Misteri

Oggi sta diventando più difficile utilizzare i portoni, tanto che la stessa Congrega dei Turchini chiede ai procidani che li posseggono di metterli a disposizione, ed è sorta la Cittadella dei misteri, situata nei locali dell’ex-carcere vicino alla Porta di Ferro e nei capannoni posti all’aperto vicino al Belvedere dei due Cannoni, dove i ragazzi trovano lo spazio per lavorare  liberamente alle loro tavole e dove possono conservare i misteri più artistici che altrimenti sarebbero distrutti, come di regola si fa con tutti gli altri.

Il venerdì santo comincia prima dell’alba.
Mentre i misteri si avviano alla Terra murata per ’a chiammata – fatta attualmente da Giosuè De Rubertis, una volta la faceva suo padre -, nella sede della Congrega dei Turchini inizia alle ore cinque la veglia funebre al Cristo morto.
Alle sei parte la Processione che porta la statua dell’Addolorata e quella del Cristo, su cui è posto un velo nero ricamato, sù, all’abbazia.

Intanto si diffonde il suono funebre della tromba, seguito sempre da tre  battute di tamburo.
I trombettieri si sono esercitati in tutta la quaresima per dare la cadenza necessaria al suono ed acquisire la resistenza necessaria a suonare per tutta la processione.

Alle sette, con la chiamata di Giosuè, prende forma la Processione che si può considerare un vero corteo funebre.

Davanti ci sono la tromba, il tamburo e lo stendardo nero con  la scritta SPQR, e poi via via i misteri, quelli costruiti e quelli fissi (complessi statuari ispirati a momenti importanti della passione di Gesù – Canto del gallo, la Veronica, la Flagellazione ecc. –  una volta conservati nell’orfanotrofio), i confratelli con candele, le bambine col saio della Prima comunione, la statua dell’Addolorata, gli angioletti in lutto portati in braccio (sono piccolissimi) con i loro abitini neri e cappello piumato arricchiti da ornamenti in oro.

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Angioletto alla Processione

E ancora, tutti gli oggetti simboli degli eventi della Passione, come il cofano e la zappa, le catene e le funi trascinate lungo la strada, le tabelle con il sole e la luna, la lancia con la spugna e le sette aste con le ultime parole di Cristo.
Vengono, quindi, le tre croci presenti sul Calvario e infine c’è il Cristo morto portato a spalla, seguito dal  baldacchino processionale funebre, nero e ornato d’oro; subito dietro la banda che suona musica funebre e la folla dei fedeli.

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Il Cristo morto

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Cristo morto coperto dal velo

Il corteo si snoda lungo le strade più antiche dell’isola, fino all’Olmo e, tornato indietro, giunge  alla Marina Grande, da dove si risale alla Terra Murata.
Per la verità, i misteri, specie quelli più grandi e pesanti, si fermano qui: chi li ha portati è veramente stanco ed ha le mani distrutte.

Il passaggio della processione avviene tra due ali di folla; è una gara a prendere il posto migliore per vederla bene. Ci sono coloro  che salgono alla Terra murata per assistere alla chiamata e quelli che si piazzano sul Belvedere dei due cannoni per vederla uscire dall’antica Porta di ferro. Io l’ho sempre aspettata a Semmarezio, la mia piazza, che consente di vederla bene mentre scende lentamente dalla Terra e si avvia per la ripida discesa di San Rocco.

La giornata del venerdì si chiude alle otto di sera, quando le statue del Cristo e dell’Addolorata sono riportate in processione nella chiesa di San Tommaso d’Aquino, sede della Confraternita dei Turchini.

[Oltre Ponza. (5) Procida. Continua]