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Una frana innesca altre considerazioni…

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di Giuseppe Mazzella

 

Partiamo da lontano. Nel 1734 Ponza fu colonizzata per volontà dei Borboni da circa cinquanta famiglie provenienti da Campagnano d’Ischia.
Trovarono un’isola inospitale e difficile, lontana dalla “terraferma”, per i tempi. Dovettero adattarsi. Disboscarono la vegetazione che cresceva florida e terrazzarono le colline ripide, portando su, a forza di braccia, pietre su pietre, anche dalle scogliere marine.

Crearono così le “parracine”, un sistema in grado di frenare la naturale erosione della roccia, incanalando le acque in maniera razionale. La vita era tanto difficile che in più di un’occasione i Ponzesi minacciarono di abbandonare l’isola. Ma sopravvissero. La coltivazione intensiva, l’ordinata sequenza dei terrazzamenti, i bisogni di derrate alimentari che necessitavano in loco, diedero loro la forza di rendere l’isola vivibile. I prodotti, infatti, non solo bastavano alla sussistenza delle famiglie che man mano si moltiplicavano, ma venivano esportate, come il vino, che era prodotto dagli stessi vitigni ischitani qui importati dai primi coloni.

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Vecchie parracine allo scoperto versante Chiaia di Luna dopo un incendio

Anche la pesca, che si affermerà con la seconda colonizzazione, quella dei Torresi a Le Forna, circa quaranta anni dopo, riusciva a soddisfare i bisogni locali e non era in grado di essere adeguatamente posizionato su mercati più ricchi. Un proverbio dell’epoca, infatti, recita: “Vale più un pescicolo di Miseno, che tutti i grossi pesci di Ponza e Ventotene”. 

Poi ci furono il confino coatto, l’unità d’Italia, il confino politico e finalmente il turismo.
Con il turismo le campagne si spopolarono. I Ponzesi si dedicarono sempre più alle attività turistiche, più redditizie. Questo ha comportato la rapida erosione delle coste, non più trattenute dalle coltivazioni, né protette dalle canalizzazioni delle acque.
Da alcuni anni, infatti, assistiamo al degrado delle nostre coste, per le quali sono state spese somme ingenti, con risultati più che mediocri.

Su questo fronte, invece – e la faccio breve – sarebbe auspicabile, piuttosto, che continuare a spendere milioni di euro per interventi che, visti i precedenti, sarebbero o inutili o addirittura  controproducenti, utilizzare queste stesse somme per riattivare l’agricoltura e ripristinare la vecchia ossatura portante dell’isola. I pochi volenterosi che hanno, in questi ultimi anni e controcorrente voluto impegnarsi in coltivazioni di qualità, in particolare nella produzione di vini d.o.c., hanno portato un valore aggiunto alla nostra economia.

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Parracine  e viti al Fieno

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Parracine e viti ai Conti

Si otterrebbero in questo modo almeno tre risultati positivi:
uno, si riattiverebbe l’agricoltura, che in modo  moderno e più funzionale, sarebbe in grado di dare redditi importanti e grandi soddisfazioni;
due, verrebbe incontro alla manualità oggi inutilizzata a causa della crisi edilizia, dando uno sbocco al mercato del lavoro di calma piatta;
tre, ripristinerebbe e valorizzerebbe la ragnatela dei viottoli e delle strade vicinali, il che andrebbe a riverberarsi direttamente su una visione e fruizione turistica non fatta di solo mare e sole.

I sentirei ricostruiti, magari con belvederi su paesaggi mozzafiato, di cui Ponza certo non difetta, permetterebbe una fruizione dei nostri beni archeologici, oggi in quasi totale abbandono, anche perché spesso irraggiungibili, a causa della vegetazione spontanea che ha tutto invaso. E non solo. Un territorio praticabile, allargherebbe la offerta turistica, ad attività come il trekking o il bird watching.
E darebbe la possibilità di valorizzare anche il nostro patrimonio di erbe medicinali e medicamentose di cui il nostro Arcipelago è ricco.

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Vigne ripristinate a Frontone

L’investimento che deriverebbe dalle somme destinate a “mettere in sicurezza le coste”, interverrebbe su quello che viene comunemente detta “liquidità di cassa”, con riflessi diretti e immediati sull’economia di tutti i Ponzesi. Sono risorse che resteranno a Ponza e non nelle casse, seppur legittime, di qualche operatore esterno.

Se è vero, come è vero, che gli interventi fin qui fatti sulle nostre martoriate coste – martoriate soprattutto da interventi non solo inutili ma anche dannosi, con apposizione di reti che secondo alcuni non fanno che peggiorare la situazione, e non hanno nessun beneficio tangibile – è anche vero che dirottare queste somme avrebbero un effetto immediato e positivo sull’economia e quindi sulla vivibilità dei Ponzesi.

Tutti siamo consci che i due ormai striminziti mesi estivi non sono più in grado di sostenere l’economia isolana, e che bisogna trovare altre vie. In attesa di poter realizzare le infrastrutture di cui Ponza abbisogna – in primis una portualità efficiente e moderna – ma che comporteranno anni di lavoro, riattare l’agricoltura, con tutto quello che vi è legato, darebbe ossigeno immediato ad una popolazione già fortemente penalizzata. Ed eviterebbe una nuova emigrazione, fenomeno che seppure larvatamente sta cominciando a manifestare i primi segni.

Al piano di “messa in sicurezza” delle nostre coste, su cui ci giocheremo il prossimo fututro, bisogna opporre il piano della “messa in sicurezza” dei Ponzesi, che ancora una volta nella loro storia, sono chiamati a superare una prova molto impegnativa.