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Giochiamo a riconoscerci

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di Francesco De Luca (Franco)   

 

Vorrei portare i lettori di Ponza-racconta in una dimensione fantastica, partendo da una situazione reale e ben conosciuta: quella di Ponza.

Per un verso dunque, sembrerà di muoversi su un terreno familiare, mentre per un altro verso si frequenterà una dimensione irreale.

L’immagine-concetto da cui partire è considerare Ponza come “luogo di rifugio”.

Un luogo diventa “rifugio” perché ha rigettato le caratteristiche della “normalità”, della consuetudine, ed è organizzato secondo dinamiche strutturali improprie.

D’altra parte si cerca un rifugio quando la normalità della propria esistenza si reputa insopportabile, invivibile, con elementi tanto intollerabili da non reggerli più. E ci si rifugia lontano. Ove il “lontano” non è un dato fisico bensì mentale.

Al rifugio si aspira perché protettivo, non invasivo, dominabile. Anche se il luogo, proprio perché inconsueto, vive in un’atmosfera tutta sua, con ritmi suoi, abitato da individui non amalgamati socialmente. Questo è un dato evidente. Ci si rifugia dove ci si attende d’essere accolti. La sicurezza appare fondata perché il gruppo sociale è insoddisfatto della sua coesione, sa di essere permeabile, e lo mostra.

Il rifugiato vi si inserisce con grande aspettativa di sollievo immediato. Ben presto s’accorge che il rifugio vive di temporaneità. È troppo fuori dai paradigmi dell’attualità. Attrae e si palesa come eccezione non come regola. Per cui deve rimanere tale altrimenti, una volta regolarizzato, non attrae più, e non funge più alla richiesta motivazionale del rifugiato.

La temporaneità della sua dimensione è ben presente al gruppo sociale che  accoglie calorosamente perché sa che la permanenza sarà temporanea.

Il gruppo conosce la singolarità del suo stato, se ne vanta per taluni versi e per altri disprezza la trasgressione dominante, l’eccezionalità imperante, la fragilità dei rapporti. Conosce il logorìo dell’eccezionalità.

Lui stesso è logorato, sgangherato. I rapporti fra i membri sono superficiali, di facciata, insoddisfacenti per la stessa natura sociale. Da qui la permeabilità verso l’estraneo.

Non solidale, il gruppo, non costruttivo, senza futuro. Perché non ha la stabilità strutturale per programmare, per definire itinerari di crescita, percorsi di sopravvivenza.

In un luogo-rifugio c’è apparente disinteresse e celato livore, c’è comunanza di facciata e volontà di allontanarsene al più presto.

Il rifugio appaga momentaneamente ma ti prepara psicologicamente alla fuga appena le condizioni lo permetteranno.

L’economia in esso è quella che si improvvisa, e chi esercita una funzione economica stabile lo fa con rammarico e, alla prima occasione, se ne libera.

Il potere si esercita con capriccio, con spavalderia o per inerzia; si subisce con indifferenza. Chi vi staziona inconsciamente percepisce l’instabilità della permanenza. La precarietà, la temporaneità, la fragilità dello stato sociale in cui si opera rende la funzione del potere un passatempo, non un impegno valoriale.

In un luogo–rifugio non si mette radici, si trascorre per il tempo necessario. Il presente, soltanto il presente, l’immediato ha consistenza di valore: il passato è definitivamente perso e non più rappresentativo di un modello da imitare; il futuro è evanescente, nebuloso.

Si vive in una costante atmosfera di emergenza, perchè il provvisorio impera.
I valori riconosciuti sono: il denaro perché non ha legame alcuno; lo scambio di favori.

La raffigurazione non è esaustiva perché il gioco, come dice l’adagio, è bello se dura poco.
Ponza, è chiaro, mi è servita come punto di partenza. All’arrivo ognuno ci penserà da sé.

A chi chiedo di palesare le conclusioni a cui è arrivato è l’amico Giovanni Nappi. Conosco le sue qualità ludiche ed è per questo che confido che dal dialogo potranno trarre piacere tutti.