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La grotta del serpente (prima parte)

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di Tina Mazzella

 

È  rimasta sempre uguale quasi immutata nel tempo, l’isola che ogni anno raggiungo d’estate.

Le sue rocce consunte e screpolate dal mare e dalla salsedine emanano strani riflessi ed il loro profilo si staglia selvaggio e forte.

Nei giorni di tempesta il vento e le onde ne battono impietosamente le coste; ma nei lunghi periodi di bonaccia, terra, cielo e mare compongono una mirabile oasi di pace.

È un paese antico con le strade strette e pietrose; con i numerosi sentieri ancora oggi duri ed impervi, con gli orti circondati dai filari delle viti e protetti dagli alberi da frutta e con le case bianche per lo più ad un solo piano.

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Per le vie centrali serpeggia un diffuso benessere, simbolo inequivocabile di un dilagante modernismo che vuole imporsi ad ogni costo con vetture di grossa cilindrata parcheggiate in doppia fila, con  motori roboanti, con l’aria appesantita dall’odore di benzina e di nafta e con la folla vociante ed orgogliosa di sfoggiare abiti firmati e costosi.

Tuttavia nelle stradine periferiche e nei recessi più remoti spira un’atmosfera quasi irreale.

Da quelle solitudini lo sguardo può sondare i fondali marini limpidi e misteriosi.

Su quegli scogli non giunge l’eco della folla esigente e chiassosa ed il tempo sembra immobile; anche la vita quotidiana rallenta la sua corsa per assumere un ritmo sonnolento tipico di altre età.

Lungo i sentieri, presso gli orti e negli angusti cortili, di notte si può ancora respirare il profumo inconfondibile del mare misto al fresco aroma dei cespugli mediterranei ed alla fragranza dei frutti di stagione sul punto di maturare.

Molti uomini appartenenti alle vecchie generazioni che spesso si incontrano nell’isola completano questo quadro paesaggistico pittoresco e denso di contrasti. Le loro parole frettolose e pronunciate tra i denti, i loro modi un po’ bruschi ma schietti contribuiscono a conferire a quel mondo arcaico un carattere indolente ed un po’ selvatico.

Seduto su uno dei muretti che costeggiano la strada provinciale dividendola dai dirupi e dai burroni, molto tempo fa, conobbi Francesco.

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Lo ritrovo ogni anno sempre sullo stesso muretto, immutato nell’aspetto, nei gesti e forse anche negli abiti. Il corpo è asciutto e mingherlino e gli occhi un po’ maliziosi brillano nel viso allungato ed ossuto ricoperto dalla barba ispida.

I capelli sfidano indifferenti il tempo che passa, conservando il loro colore bruno e la morbidezza che li rese belli in gioventù.

Quando mi vede mi corre incontro e mi saluta affettuosamente, poiché ormai sono divenuto per lui l’amico dell’estate. Mi informa dei piccoli cambiamenti avvenuti in mia assenza; mi ragguaglia sui morti, sui nati, sui matrimoni. Mi parla della situazione e dei risultati della pesca; si sofferma sulla condizione della campagna – su questo argomento è molto ferrato -; conosce i nomi di tutte le malattie che colpiscono le piante e i necessari rimedi per combatterle; inveisce rabbioso contro quei matricolati incoscienti che, pur di attuare assurde vendette, spruzzano le viti di benzina costringendole ad una morte precoce. Sovente maledice la siccità che rende i terreni aridi e brulli.

Francesco è insomma il mio prezioso informatore e mi aiuta ad integrarmi nell’isola. Dopo il tramonto trascorriamo insieme molte ore discorrendo di svariati argomenti e lui ne è felice. Da buon contadino ama la terra ma con la medesima passione si dedica alla pesca.

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Tutti in paese lo giudicano un individuo solitario ed anche un po’ burbero, poiché conduce un’esistenza appartata assai simile a quella di un eremita. Di certo non è più giovane, anche se mi risulta difficile attribuirgli un’età.

Da scapolone convinto, vive nella casa ereditata dai genitori insieme ad una sorella nubile a sua volta.

Spesso mi sono chiesto perché abbia deciso di non prender moglie, dal momento che possiede molte delle qualità che potrebbero attrarre una donna.

Gli ho rivolto più volte questa domanda senza ottenere una risposta persuasiva; anzi, ho colto nel suo sguardo un certo imbarazzo e nel contempo una palese volontà di troncare subito quel discorso.

Solo in un’occasione sostenne che il matrimonio non gli si addiceva, perché lui non avrebbe mai reso felice una persona. Reputai bizzarra questa categorica affermazione e perciò la accolsi con una sonora risata alla quale tuttavia egli non si unì, rimanendo cupo ed accigliato per il resto della serata.

Un giorno le nostre conversazioni ci condussero al periodo fascista: non sapevo che cosa Francesco pensasse di quell’epoca e perciò cercai d’indagare.

“Ai tempi di Mussolini” – mi disse – “confinati eravamo anche noi su quest’isola: non potevamo spingerci oltre la galleria grande senza incrociare le guardie che ti squadravano come un malfattore, che ti interrogavano e, se non erano convinte della tua identità o della tua buona condotta, ti controllavano. Allora ero molto giovane e non mi ponevo troppi problemi ma, non appena incominciai a riflettere, i militi mi piacquero sempre meno.
Ciò accadde quando requisirono alcune case per alloggiare Mussolini ormai prigioniero del Re con la sua scorta.
Anche la nostra fu tra quelle e ne provai un grande fastidio. Fummo costretti a trasferirci provvisoriamente presso un parente ma, quando vidi quegli uomini arroganti e ben vestiti con i capelli lucidi di brillantina varcare da padroni la soglia della mia casa, giuro, li odiai.

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Una sera finalmente notai un insolito movimento di barche nello specchio di mare prospiciente la spiaggia della mia frazione e vidi una nave magnifica approdare nel porto illuminato.
Il giorno seguente seppi che avevano portato via Mussolini e l’ingombrante scorta. Così la mia casa fu libera. Tuttavia nel farvi ritorno trovai tutto in disordine: a dispetto della nostra miseria, c’erano resti di caffè, liquori, cioccolata ed avanzi di cibi e di bevande raffinate a me sconosciute.

Allora giudicai gli uomini del regime egoisti, bugiardi e prepotenti.

Dopo di loro arrivò per noi la sfortuna più nera: il piroscafo che collegava la nostra isola al continente fu affondato da un siluro nemico. Più nessuno osava avventurarsi sul mare, tale era il terrore di morire; ben presto le scorte alimentari si esaurirono e fu la fame. La popolazione di questo paese non fu decimata dalle bombe ma dalla fame. Così anche noi conoscemmo la guerra!

Isolati dal resto del mondo, esaurimmo anche i già costosissimi prodotti acquistati al mercato nero.
Sugli alberi non c’era più un frutto e quelli che venivano a maturazione erano costantemente sorvegliati dai proprietari. Sul terreno non si trovava più un filo d’erba: la miseria aveva reso ogni cosa commestibile; non c’erano più galline, né conigli e persino i gatti divennero rari. La gente incominciò a morire: la campana ogni giorno con  rintocchi tristi avvertiva di nuovi decessi; si moriva ad ogni età; perdetti molti amici in quel periodo!

Poi avvenne quel fatto, quel maledetto fatto che mi ha segnato per tutta la vita!”

A queste parole forse spinto da un incalzante bisogno di parlare, Francesco mi prese a braccetto e mi condusse per la strada provinciale, sino a raggiungere una zona buia non molto lontana dall’abitato.

La grotta  del serpente (1)