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La miniera. Testimonianze

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di Paolo Iannuccelli

L’apertura della miniera di le Forna ha rappresentato, nel 1935, una grande novità per Ponza.

(Nella foto un gruppo di lavoratori di quell’epoca)

 

L’ingegner Francesco Savelli, che finirà trucidato alle Fosse Ardeatine, aveva sostenuto attraverso diverse pubblicazioni che a Ponza esisteva la possibilità di estrarre bentonite. Savelli, grande amico dell’ex ministro fascista Pietro Fedele, di Minturno, vantò spesso il fatto che 150 ponzesi tra minatori e marinai, addetti addetti al trasporto della bentonite, lavoravano alla Samip.

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Nelle foto, durante l’apertura della raffineria di bentonite  a Gaeta, si osservano a sinistra Savelli mentre legge il discorso e a destra il ministro Pietro Fedele

Nel dopoguerra l’azienda, con il suo trattamento, ha rappresentato il più significativo momento dello sfruttamento del proletrariato isolano. Due testimonianze di grande valore ed intensità offrono uno spunto di riflessione. Antonio Di Meglio, detto “Cgil”, ha lavorato 23 anni in miniera, dal 1952, sino alla chiusura. “Facevo praticamente di tutto – ha raccontato – dal minatore al facchino, all’addetto all’attracco della nave; si lavorava duramente anche dodici ore al giorno, con turni la notte. Era un lavoro duro, snervante, ma non avevamo alternativa. Eravamo a contatto con la polvere, con sostanze nocive, una vita terribile. Non esistevano organizzazioni sindacali a tutela del nostro lavoro, ero molto rispettato dai miei compagni che ammiravano il mio spirito combattivo, la voglia di far prevalere certi diritti. Ero sempre il primo ad organizzare scioperi quando la paga non arrivava, ci siamo astenuti dal lavoro anche 40 giorni, le spettanze arretrate riguardavano ben sette mesi. Alla fine, quando i padroni se ne sono andati ci hano trattato male, offrendoci solo la metà della liquidazione. Nessuna riconoscenza per quanto abbiamo fatto e dato. Il nomignolo Cgil deriva dala voglia di lottare, di combattere in favore della classe operaia. Mi hanno offerto di fare il caporale ma non ho accettato, non volevo saperne di compandare su altri”.

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Altro esempio di sfruttamento viene dalle lucide parole di Carmina Feola, in  Samip per sette anni, dal 1945 al ’52. L’ascolto è una testimonianza davvero terribile ed eloquente. “Conducevo il carrello lungo le gallerie – ha raccontato – altre volte pulivo le stanze dei dirigenti, eravano trattati quasi come schiavi. Quando mi recavo al bagno ero controllata da un caporale, dovevo fare in fretta, pena la multa di cento lire. Lavoravo anche la domenica per caricare la nave diretta al porto di Gaeta. La mia vita in miniera è stata brutta, piena di mortificazioni, di sacrifici, non hanno pagato nemmeno i contributi pensionistici. Si respirava aria di corruzione, la sicurezza sul lavoro era inesistente, mancavano i controlli. Ricordo tanti infortuni, operai che si sono fatti male e non sono stati nemmeno soccorsi. La paga era bassa, meno di tremila lire al mese. Una vera elemosina per tanto e duro lavoro, senza fermarsi un attimo. Ci hanno portato via persino le case, abbiamo dormito in chiesa, tolto le cisterne di acqua, ridotti a mangiare l’insalata e le lenticchie di nostra produzione”.

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