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‘A vennégne (La vendemmia) 3^ puntata

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di Pasquale Scarpati

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Finalmente l’asino era costretto a sobbarcarsi la soma giusta per lui e, più e più volte, lentamente, si inerpicava per la salita dei Conti partendo dalla spiaggia di S. Maria. Sacchi di legumi, di grano, sughero e l’immancabile sacco pieno di sale. Quest’ultimo era molto prezioso perché serviva oltre a condire i piatti anche e soprattutto per altri scopi. Per prima cosa con esso si salavano le sardine che erano preferite alle acciughe forse perché, essendo più grosse e più grasse , erano ritenute più nutrienti.; poi veniva salato il formaggio di pecora, il pomodoro passato, la cosiddetta “cunserva” che veniva essiccata al sole, protetta dall’assalto delle mosche dalla solita rete ma soprattutto serviva per salare il lardo e la carne di maiale per quanto era possibile. Allevare il maiale era molto conveniente perché “ Del maiale, si diceva, non si butta niente”. Anche quell’evento era una festa che avveniva a circa tre mesi dalla vendemmia, in pieno inverno, quando compare la tramontana o il grecale che scaccia le mosche e rende soda la carne.  Nel giorno stabilito si faceva uscire l’animale dal recinto con uno stratagemma e lo si portava, “ sua sponte”, sul luogo del sacrificio. Già da alcuni giorni era tenuto a digiuno; si ponevano, quindi, un po’ di ghiande  fuori dal recinto e  a mano a mano che lui, affamato, le mangiava si ponevano altri mucchietti su per le scale fino a che non arrivava nel bel mezzo della “ curteglia” dove si compiva il suo destino. Appena ucciso si controllava con curiosità ed apprensione lo spessore del grasso. Se risultava al di sotto della “ quattro dita” si diceva che “ non era uscito buono”. Poi si iniziava la lavorazione cominciando dal “sanguinaccio” e via via tutto il resto: lardo, sugna, tracchie, salsicce, costolette. Tutto o quasi veniva salato fatta eccezione del cosiddetto “ soffritto” che dovendo essere, giocoforza, consumato nel minor tempo possibile era dato, in parte, ai parenti o ai vicini di casa o a qualcuno più indigente. A loro volta quando essi uccidevano il maiale restituivano, se volevano, ciò che era stato  donato. Così si può dire che, trimestralmente, nel corso  dell’anno c’era un evento. Ciò avveniva anche a scuola per noi poveri alunni…!

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Più in là, reietta in un angolo della cantina, c’è una vecchia macina. Giace lì abbandonata da tanto tempo perché la “ modernità” ha fatto sì che la farina,la n° “1”,la “0 “e molto più di rado  la “00”, o la “vrenna” arrivi direttamente dai mulini situati sulla “ terraferma”. Se la pesca è riservata esclusivamente agli uomini, se il lavoro dei campi viene ripartito tra i due sessi, quello della molitura del grano è ad esclusivo appannaggio delle donne o per meglio dire di quelle più giovani. Alle tre del mattino, infatti, prima del sorgere del sole le tre sorelle: Civita, Sabettina e Marietta, ancora fanciulle, erano costrette a lasciare il dolce letto e scendere in cantina per assolvere il compito di macinare il grano. Mentre Civita, di due anni più grande delle sorelle, salita su una sedia, faceva scorrere il grano a pioggia nel foro centrale della macina, Marietta e Sabettina spingevano con forza contemporaneamente la pietra. Il grano doveva scorrere né poco né molto: poco non avrebbero macinato nulla, molto non avrebbero lo stesso macinato nulla perché si sarebbe tutto impastato, creando una poltiglia. Lavoro molto faticoso per le piccole mani e che doveva essere fatto anche con molta attenzione per non vanificare gli sforzi. Nel contempo lo stridio, nel silenzio della notte, si spandeva dappertutto, ma nessuno si lamentava, soltanto un vecchio, vicino di casa, ebbe della pacate parole di commiserazione per  le tre fanciulle.
Alla fine di ogni giorno di vendemmia  ci si lava i piedi ma non nella stessa acqua. Mamma dice che questa è un’usanza antica ma che si era “ modernizzata”. Ogni giorno, infatti, quando lei era fanciulla, la sera, ritornati dai campi, si dovevano lavare i piedi nella stessa acqua e nella stessa bacinella, cominciando dal più grande e via via fino a quello più piccolo; affermava: “ L’ultimo poteva tagliare l’acqua con il coltello”.  Certamente la mancanza d’acqua faceva sì che l’igiene non fosse, come dire, a buon livello. Venivano penalizzati soprattutto i neonati costretti a stare per una giornata intera in lunghe fasce, stretti come salami. Ed anche per questo la mortalità infantile era enorme. Non vi era famiglia che non piangesse qualche piccolo, volato in cielo ed è anche per questo che, diceva mamma, quando moriva un bambino si buttavano i confetti e si suonavano le campane a festa. Si diceva, infatti, certamente a mo’ di consolazione collettiva, che si doveva festeggiare perché un’altra anima era volata in Paradiso
L’ultimo giorno di vendemmia la cucina si riempie di profumi. Dalla grande bocca del forno posto al centro del focolare in muratura posso scorgere un’allegra e vivace fiamma. In una tegame di terracotta cuoce il ragù fatto con carne mista di bovino e maiale tagliata grossolanamente. Prima di metterlo a cucinare sul fondo del tegame è stato messo un po’ di “zogna” ed anche un po’ di lardo, pestato sull’”allaccia lard’”( tagliere). Il sugo, bello rosso,  cuoce lentamente sembra una lava incandescente appena fuoruscita, vischiosa, dalla bocca di un vulcano: una bolla qua, una bolla là. Viene insaporito con il sale reso “ fino” “ dint u’ pista sal’ “  di legno formato da un contenitore ( mortaio) ed un pestello anch’esso di legno.  Al di sopra involute di fumo che si espandono e impregnano i vecchi muri del loro odore particolare. Eva, ogni tanto,alza il coperchio e va a rimaneggiare il tutto con una “ cucchiara” di  legno, io, invece, mi presento con una fetta di pane e cerco di immergerla direttamente nel rosso fuoco, ma lei mi scaccia perché il sugo potrebbe essere “deturpato” dalle molliche di pane, ma, nello stesso tempo, me ne spalma un po’ sul pane con la “cucchiara”. La “ cucchiara”, quella della cucina, ha per me, una doppia valenza: buona e “cattiva”. Buona allorché mi serve per assaggiare, quasi sempre di nascosto, ciò che in quel momento si cucina e che stuzzica il mio palato; cattiva quando” l’assaggio” direttamente sulle gambe. Una volta, però, anch’io l’ho fatta assaggiare, in quest’ultima versione, a qualcuno più grande di me.  In un altro tegame, pieno di cipolle, si sono tuffati  due giovani conigli, saliti dalla loro “rotta” posta al di sotto della “ curteglia” per sacrificarsi alla “ cacciatora” . Poiché molti saranno i commensali, i conigli devono essere almeno due perché, come dice mamma, il coniglio come l’agnello è “ sbraogna casata” ( cioè sembra tanto prima di cuocere ma poi diventa “ niente”). La carne sarà bella soda: né troppo dura né troppo morbida. Eva, aiutata da Giovanna, ha già tagliato in modo non uniforme i “ maccaruni i’ zit’ ed è stato anche grattugiato il salatissimo e durissimo formaggio di pecora. Sono molto indaffarate e ci mandano via dicendo “ levat’v’ a’ dint’ i pied’”. Ma a noi piace quel trambusto, quell’odore e quel tepore . Già pregustiamo i” maccaruni” belli rossi, la carne messa nello stesso piatto, col pensiero affondiamo i denti nella carne di coniglio e, se ci scappa, potrebbe “uscire” anche qualche fetta di panettone cotto al forno, ovviamente come frutta non può esserci che l’uva e, se c’è, qualche fico d’india. Qualche volta invece del coniglio, sulla tavola, ci vengono serviti pezzi di gallina o pollo cotto al forno. Ma prima di pranzo noi, bambini abbiamo da risolvere un altro, inderogabile problema.  La cucina è un ambiente che non fa parte delle due stanze. In essa si accede da due porte: una affaccia sulla “ curteglia” ed è composta da due ante poste in modo orizzontale, l’altra la mette direttamente in comunicazione con la prima stanza. Sulla “ curteglia si affaccia anche una piccola finestra che ha una fitta  grata di ferro per evitare l’intrusione delle mosche.  Sotto il focolare c’è la legna o il carbone, appesi ai muri strisce di aglio intrecciate o cipolle. Una credenza mostra piatti e bicchieri. Vari attrezzi agricoli e non sono appesi ai chiodi, spicca “nu criv”(setaccio) dai bordi di legno che serve per cernere la farina, poi vari mestoli e qualche  “ vota pesc’”
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 Non appena gli uomini sono tornati dalle loro ultime fatiche: chi dalla cantina, chi dalla stalla, chi dalla” rotta “ dei conigli, viene calata la pasta e tutti si accingono a sedersi intorno al tavolo. Noi però non amiamo stare a tavola con gli adulti, non ci piace ascoltare i loro noiosi discorsi, ci piace stare nella nostra, oggi diremmo, “privacy”. Per questo ci aiuta un piccolo, piccolissimo tavolo che sta in cucina. Purtroppo è talmente piccolo che a stento possono stare due bambini. Pertanto dobbiamo fare gli accordi. Ovviamente io che sono più grande degli altri due faccio la mia scelta che cade sempre su Giuseppe. Così il povero Mario, nonostante le proteste,  deve rassegnarsi e, onde evitare altre conseguenze,viene richiamato da sua madre per sedersi al tavolo con gli adulti. Le sedie sono state sequestrate da quelli che stanno intorno al tavolo , a noi non rimane che sederci su un vecchio baule. Vicini, vicini, stretti stretti ci sentiamo come fratelli.