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‘A vennégne (La vendemmia) 1^ puntata

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di Pasquale Scarpati

 
 
Non amo andare ai Conti, a casa di nonna “ Tummtella”, preferisco restare a S. Antonio per giocare con gli amici o meglio ancora andare al cinema. Ma, al tempo della vendemmia, verso la metà di ottobre, quando l’uva, dagli acini minuti e dolci, dal color giallo paglierino, è pronta per essere colta per poter dare agli uomini prima il dolce mosto e poi il succo che ritempra lo spirito ed il corpo, percorro, senza mugugnare, la “via vecchia” insieme con mamma e, senza protestare, mi sobbarco la fatica della salita. L’odore del mosto, insieme agli altri, ci avvolge, e, dappertutto, si respira aria di festa. Le cantine che affacciano sulla strada sono aperte e gli uomini si affannano a ripulire e a sciacquare botti, damigiane e bottiglioni. Ci si saluta con un fare tra l’allegro ed il cordiale e già si commenta l’annata dell’uva e più vi è abbondanza più il sorriso si allarga. Si commenta prima nell’insieme, poi si scende nei particolari delle varie località.

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A casa di nonna, di solito, già troviamo le sorelle di mamma: zia Sabettina e zia Marietta, gemelle e di qualche anno più piccole di lei. Non mancano anche alcuni altri cugini : Eva e Giovanna. A me, però, interessa soprattutto che vi sia Giuseppe, come ho già detto, quasi mio coetaneo. Più tardi arriva zia Desina, moglie di zio Vittorio fratello di mamma, e con lei Mario, altro mio coetaneo: il nostro “ martire”. Così si ricompone “il trio”, pronto all’ ”opera”. Mentre gli adulti preparano tutto l’occorrente, noi, bambini, non facciamo altro che scorrazzare per ogni dove: intorno alla casa, saliamo e scendiamo mille volte le ampie scale che portano alla ”curteglia”. Cardogna, il volpino, a fatica ci tiene dietro e alla fine rinuncia, si sdraia in un cantuccio della “curteglia”  e, anche se sollecitato, non si scompone, gli rimane soltanto la forza di agitare con allegria la coda.   La sera, con la sua nera oscurità, ci sorprende veloce ed improvvisa; viene rischiarata dalla fioca luce del lume a petrolio che sta al centro del tavolo nella stanza che si trova appena si entra dalla porta principale. Quando lo si prende e si va nell’altra stanza, quella da letto, non è altro che una fioca luce giallina che cammina proiettando ombre sul muro. Noi seguiamo quella luce e quelle ombre che ci introducono nella camera da letto di nonna. La casa di nonna è composta da due ampie stanze intercomunicanti. La prima è “ la sala” di ricevimento, quella più interna è la camera da letto. I tramezzi sono molto spessi e la volta è a cupola. Dalla camera da letto sporge un piccolo balcone che si affaccia sulla cantina. Oltre al lettone matrimoniale, nella stanza, addossato ad un muro, vi è un comò su cui sono poggiati due lumi “di rappresentanza” dalla base nera decorata con foglie, un pendolo, perfettamente funzionante che batte sia le ore che le mezze ore ed un “ bambinello” benedicente, dai riccioli d’oro. Il “bambinello”, sorridente, tiene sul capo, leggermente di lato, una corona dorata ed è ricoperto in parte da un vestito leggero di color rosa pallido, orlato di frange e margheritine a rilievo. E’ posto in una “campana” di vetro leggermente incrinata. Mamma dice che questa si incrinò  il giorno antecedente le sue nozze mentre la pulivano e rassettavano tutta la casa perché il pranzo nuziale, come era d’uso,  si sarebbe svolto a casa della sposa.
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I miei si erano conosciuti, per caso, l’anno precedente. Mio padre aveva 29 anni e mia madre venti e a quel tempo tale differenza di età era considerata adatta per il matrimonio. Mio padre non aveva mai visto mia madre anche se qualche volta si fermava in quella casa perché gli occupanti erano suoi clienti. Non appena  la vide scattò il  “colpo di fulmine”.  In quel tempo non era possibile dichiararsi direttamente alla fanciulla sia perché non era d’uso sia perché era piuttosto difficile se non impossibile venirne a contatto; anche in chiesa vigeva netta la separazione: entrando, a destra sedevano le donne ed a sinistra gli uomini. A scuola poi….. Bastava, però, uno sguardo….. Il giovane inoltre, non appartenendo alla famiglia,  aveva bisogno di  qualcuno che facesse da intermediario. Lo trovò nella sorella di nonna, zia Giuditta, quella che aveva la “cantina” a S. Maria, con la quale aveva più dimestichezza. Lei acconsentì e se ne fece portavoce  presso la sorella ed il cognato. Il giovane poté, così, salire, in altra veste, le scale della “corteglia” e non ebbe molta difficoltà a presentarsi ai futuri suoceri perché già lo conoscevano. Questi ben volentieri lo accolsero ma posero delle limitazioni. La prima e sicuramente la più grave era quella che il giovane non poteva accedere alla casa della futura sposa come e quando voleva: vi erano dei giorni stabiliti infrasettimanali anche perché le altre due sorelle allora presenti, Sabettina e Marietta, erano già fidanzate, per cui, a detta del futuro suocero, si sarebbe creata, stando tutti insieme, troppa confusione. A mio padre fu concesso, pertanto, di accedere due giorni la settimana prima del tramonto del sole e di andar via non appena fatto buio. Ma il giovane, astutamente, riuscì ad ottenere il permesso di accedere anche la domenica paventando al futuro suocero l’uscita con gli amici per andare a giocare a carte. Un’altra era che, ovviamente, non potevano mai uscire da soli e senza permesso; un’altra ancora era che non potevano neppure sedersi vicini ma a debita distanza e con la presenza di “mamm’” ed anche di “ tat’” ( padre). A tal proposito mamma mi raccontava anche un episodio di non so chi, il quale, stando seduto di fronte alla fidanzata, dall’altro lato del tavolo, sotto il vigile sguardo della futura suocera, pur di toccare la “manella” della promessa, finse di voler accendere la sigaretta alla fiamma del lume e invece vi soffiò sopra, facendo sprofondare la stanza nel buio più completo con grande apprensione della suocera e conseguente gran trambusto. Così andava il mondo! Il 10 di marzo del 1935, in un giorno in cui spirava una “ levantata” che spingeva il corteo nuziale lungo la salita dei Conti rendendola meno faticosa sicuramente per gli invitati, ma indubbiamente inefficace per gli sposi che con l’animo già “volavano”, mio padre e mia madre si unirono in matrimonio. La S. Messa fu officiata nella chiesa della SS. Trinità da don Gennaro Sandolo.

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Al di sopra del comò c’è il ritratto di nonno “ Rafele”, morto quando io avevo appena tre anni. Nonna, da quando era morto il marito, non aveva più dormito nel letto matrimoniale; preferiva un lettino addossato ad una parete della prima stanza, posto quasi al di sotto del soppalco, il “mezzanino” a cui si accede attraverso una scala di legno. Su questo “mezzanino” ci rifugiamo anche noi, sia perché ci piace creare un angolo “appartato”, sia perché possiamo saltare sul lettino dove va a dormire zio Aniello, ultimogenito della famiglia di nonna, sia perché speriamo di trovare aperta, senza essere chiusa a chiave, la cassa dove sono riposti i fichi secchi.
 Il lettone della camera da letto viene, quindi, requisito dai più piccoli di età e da quelli un po’ più grandi, fino alla sua “capienza”: chi “a capo”, chi “a piedi”. Ma, dopo che si è spento il lume a petrolio, nonostante l’oscurità, l’ ”euforia” del momento ci tiene svegli e non “troviamo pace” anzi non “diamo pace” fino a che non interviene qualche adulto che manda via quello più grande di noi e si mette al suo posto con nostro grande disappunto. Ci invitano a dormire perché il giorno successivo sarà faticoso. Freno i miei “ardori”, ma non riesco a chiudere occhio. Il pendolo batte lentamente le ore  e poi con un rintocco: le mezze ore. Piano piano si infonde nel mio animo una sorta di tranquillità soporifera  che fa chiudere beatamente gli occhi: è bello sentirsi vicini ed anche in un certo senso protetti. Alla fine il sonno ristoratore vince lo scandire del pendolo.
Il canto del gallo non ci sveglia perché già siamo in piedi. Mamma mi fa calzare scarpe vecchie e mi fa indossare vestiti vecchi ed io mi sento più a mio agio. Dopo un po’ di tempo sopraggiungono i “rinforzi”: quelli dei nipoti, figli maschi e generi, liberi da impegni. A loro spetta il compito più pesante: devono sobbarcarsi il peso dei cesti ben intrecciati di canne e di vimini, colmi dei preziosi grappoli. Zio Michele, che in realtà si chiama Giovanni, è  esperto nel fabbricarli.  Tutta la famiglia è chiamata a…. raccolta: mio fratello, zio Costantino,  Andrea, se libero dagli studi, zio Vittorio, zio Gennarino, che in realtà si chiama Andrea, con i figli Raffaele e Vittorio ed anche la loro madre zia Civitina, figlia di zia Giuditta.  Manca solo mio padre perché impegnato e perché inesperto e mancano anche altri due figli che sono emigrati negli U.S.A. Anche l’asino deve fare la sua parte, ma lui è più “sfaticato” e più “ fortunato” perché, caracollando, potrebbe disperdere, lungo i sentieri formati per lo più dalle acque dilavanti, buona parte del prezioso carico. Pertanto “sarà costretto”,  “suo malgrado” a portare una soma più leggera del solito.

(continua)