Lamonica Silverio

La battaglia navale di Ponza del 1435. Alfonso il Magnanimo, di Alan Ryder (6)

Traduzione di Silverio Lamonica

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Lamenti di tormenti finanziari si levarono direttamente da Gaeta. “Abbiamo trovato questo posto così ripulito che siamo stati costretti a spremere danaro come se si trattasse di  gocce di sangue” (7). “Il mio denaro non resterà a lungo con me” (8). “Ci siamo dati da fare tanto per ricavare solo 6000 ducati e pensare a quante bocche dovrà sfamare quel pezzettino” (9). “La vittoria in questo regno durerà, a Dio piacendo, unicamente se saremo in grado di raccogliere 150.000 ducati entro dicembre… da  quei 150.000 ducati dipende l’onore e la vita” (10). “Tutti i nostri sforzi sono in bilico…per mancanza di danaro… nessuno dà una mano a raccoglierlo… ma ciascuno è assai pronto a spenderlo, sicché quel poco diventa ancora meno”  (11). E continuò così per molti giorni. Il problema sorse in parte dall’impossibilità di reperire entrate sostanziali nel caos bellico dovuto al ridotto territorio napoletano, controllato da Alfonso; la tassa-vacanze che caratterizzò notevolmente gli accordi coi baroni e le città che erano contigue al suo accampamento fu inasprita. Il suo tesoro di guerra, d’altronde,  avrebbe dovuto essere rimpinguato dagli altri suoi possedimenti, con ogni mezzo che l’abilità della tesoreria potesse escogitare. Cortes, convocato dalla Regina Maria in conseguenza [della vicenda] di Ponza, rispose generosamente: la Catalogna offrì 100.000 fiorini per equipaggiare la flotta, Aragona 220.000 fiorini e Valencia 50.000. Pedro tornò in fretta in Sicilia per estorcere uno spontaneo contributo a quel regno. Al vicerè di Sardegna fu ordinato di cercare prestiti e qualche tesoro sepolto, e prendere a calci gli agenti papalini in concorrenza per i fondi. Nessun ufficiale, laico o ecclesiastico, risparmiò richieste imperative di prestiti o donazioni (12). Gli stessi gioielli del re, i libri e il vasellame erano costantemente in pegno e talvolta perfino la sua stessa persona: nel settembre del 1440 fu impossibilitato a lasciare Gaeta perché aveva promesso ai suoi creditori di restare fino a quando non li avrebbe pagati.

Vendite in massa di diritti regali e di proprietà, lo aiutarono pure a rifornire la macchina da guerra e di conseguenza a ridurre il patrimonio reale in uno stato ancora più rovinato (13). Un po’ di questo denaro fu convertito in moneta o contanti; invece serviva un flusso di cambiali diretto dall’Italia ad ogni probabile fonte  di obbligazioni.       

Nota 7 – (in spagnolo la medesima frase tratta da: ACA 2694,4; 10 Feb. 1436. Al vescovo di Lerida.)

Nota 8 – una nota in mano al re: (idem c.s. : ACA 2694,69; 20 DIC, 1436).

Nota 9 – (idem c.s. – Ibid. 13 –  7 marzo 1436).

Nota 10 – ( idem c.s. : ACA 2695, 104; n. d. Alla Regina Maria)

Nota 11 – ( idem c.s. : ACA 2694, 176; 15 febbraio 1436. Ad Enrico).

Nota 12 – Ai vescovi di Valencia e Maiorca fu data l’opzione di fornire 5000 ducati o recarsi da soli al Concilio di Basilea.

Nota 13 – Tra i negoziati più bizzarri ci fu quello di Alvaro de Luna il quale, nel 1437, fece sapere di essere pronto ad investire 200.000 fiorini nelle proprietà di Aragona e Valencia (Zurita, Anales, vi 164).

 

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Perfino più significativo, nel lungo corso [di danaro] fu il sostegno finanziario proveniente dagli accordi commerciali: il frumento siciliano, le stoffe catalane, il sale di Ibiza e della Sardegna, tutti trovarono nuovi sbocchi nel regno di Napoli. Essendosi bruciato le dita col grano siciliano, raramente il tesoro osava rivolgersi di nuovo al mercato. Piuttosto trattò con abilità contratti e licenze di esportazioni per ricavare un flusso di credito, sufficiente a tenere in campo l’esercito reale, sia pur non sempre con l’efficacia desiderata (14). I suoi avversari Angioini, mancando delle risorse per affrontare queste operazioni, si trovarono in difficoltà infinitamente peggiori. La disputa iniziale fu che la loro disfatta fosse avvenuta a causa del mancato aiuto genovese o papale, e sulla loro fine un cronista napoletano commentò che Renato perse il regno “per mancanza di moneta, non di coraggio”.  Ma Alfonso si illudeva quando scrisse al vescovo di Lerida: “Se avessimo in mano il denaro, tutto sarebbe risolto” (15), perché molti erano coloro che nutrivano un’implacabile antipatia non verso di lui ma nei confronti del suo seguito. L’antagonismo tra i baroni precipitava e ciò era determinante per lo schieramento delle prime linee in battaglia; i Caldora e gli Orsini, ad esempio, contendendosi le stesse terre, non avrebbero potuto prestar servizio sotto la stessa bandiera a lungo.

Le armi della diplomazia e della guerra, come quelle della finanza, avevano del resto la necessità di conquistare il regno di Napoli. La pietra angolare della strategia aragonese in quei dipartimenti, era l’alleanza milanese, alla base c’era il credo di Alfonso di aver coinvolto Filippo Maria in una fedele alleanza. Sebbene Genova si fosse sottratta alle loro grinfie, calcolò che sarebbe stata stritolata tra la pressione dell’esercito milanese e la potenza marittima catalana, impazienti di cancellare la vergogna di Ponza. Milano avrebbe potuto anche fare assegnamento a tenere molto occupati i Fiorentini ed i Veneziani, tanto da costringerli ad osservare la loro promessa di neutralità nelle vicende napoletane (16). La qual cosa lasciò [fuori] il papa, la cui sovranità sul regno, Alfonso non poteva negare. Eugenio IV, rifugiato in una Firenze assediata dai timori dell’asse Milano-Napoli, non mascherava i suoi sentimenti. Nel gennaio del 1436 diede pubblicamente il benvenuto agli inviati di Renato, “sebbene fossero ambasciatori del regno di Napoli” e avesse permesso le nozze tra suo nipote e la nipote di Caldora  (17). Spedì  segretamente  segugi  ad  investigare  su Renato  e  il suo regno (23 gennaio); ed i suoi conseguenti dinieghi di quel fatto, rimasero in piedi, per Alfonso, unicamente sull’equivoco che essi fossero stati affidati a Cosimo de Medici fino al tempo in cui Renato avrebbe soddisfatto le condizioni stipulate.

Eugenio IV, nato Gabriele Condulmer (Venezia, 1383 – Firenze, 1447), fu il 207º papa della Chiesa cattolica dal 1431 alla morte

Nota 14 – Ryder: “Stoffe e Credito” il raccolto scarso negli stati della Barberia, in questi anni, ha aperto un buon mercato per il grano siciliano che era scambiato in oro. Le prime monete d’oro aragonesi coniate per il Regno di Napoli, gli alfonsini, erano coniate con quest’oro a peso ed uguali in eleganza al fiorino (de Lello, Historia , 781).

Ducato d’oro di Alfonso il Magnanimo, 1442-1458, detto anche ‘alfonsino’

Nota 15 – (In spagnolo c.s. – ACA 2694,13 – 7 Marzo 1436).

Nota 16 – Firenze, Venezia e Genova formarono una lega contro Milano il 29 maggio 1436.

 

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Quando apprese, tramite il vescovo di Lérida, che il 17 febbraio un rappresentante di Renato aveva reso omaggio ad Eugenio, a nome del reame, Alfonso non attese più a lungo. Contro un tale evento, fu messa in atto una strategia, concordata preventivamente con Filippo Maria. Una punta dell’attacco riguardò la costrizione dei suoi ecclesiastici [a partecipare] al Concilio anti-papale di Basilea; l’altra: l’azione militare contro gli stati della Chiesa. Era in conseguenza della lettera che il 16 marzo il condottiere Orso Orsini uscì da Roma in marcia, per innalzare ad Ostia lo stendardo del re. Lì si unirono a lui le forze di Renzo Colonna, Francesco Savelli ed Antonio da Pontedera, signori della guerra del luogo, ostili ad Eugenio. Tre giorni dopo Pontedera guidò l’irruzione a Roma al grido di “Viva la Compagnia, Viva il Re di Aragona”. Ma non stimolò alcuna risposta popolare e in breve, ancora una volta, fu messo in rotta dal Comandante delle truppe papaline, Vitelleschi. Per nulla intimidito, Alfonso riesumava il suo progetto romano in più di un’occasione, la prima volta nell’autunno del 1436 quando i suoi delegati si misero finalmente in viaggio alla volta di Basilea. Quindi si offrì a prendere Roma in nome del concilio e ne ebbe l’autorizzazione. Ma tutto ciò che ottenne fu un rafforzamento giustificato della convinzione [diffusa] tra i suoi nemici, che Aragona e Milano intendevano ritagliare l’Italia, e rinsaldare il vincolo papale alla causa degli angioini (18). Nell’autunno dello stesso anno, Eugenio mandò le truppe dei Vitelleschi nel regno a combattere per Renato.

 

Nota 17 – “Come se fossimo messaggeri del re di Napoli” (Madurrel Marimon, Mensajeros 163 ; Amat a Barcellona, Firenze, 6 febb. 1436). Il vescovo di Lérida, ambasciatore di Alfonso alla corte papale, boicottò del tutto il procedimento. Sull’atteggiamento, in generale, del papa, Amat scrisse: “Del Papa, vi dico di certo che, con le sue parole, non rende la gente cara al Signor Re, anzi dimostra di trovare tanta approvazione che quell’uomo Le darà il disturbo che potrà”. (In spagnolo N.d T. – traduzione all’impronta).

Nota 18 – La delegazione aragonese a Basilea era guidata da Nicolò de Tudeschis, Arcivescovo di Palermo, potente personalità e il più grande esperto di diritto canonico del tempo, che aveva ordine di lavorare in stretta collaborazione con i milanesi. L’apprensione italiana sembrò trovare giustificazione negli accordi di Basilea circa la ripartizione dello stato papale tra Aragona e Milano: Roma e le terre a sud dell’Appennino sarebbero state occupate da Alfonso, Bologna e la Romagna da Filippo Maria. Come loro delegati in questi territori, il Concilio designò il Cardinale Cervantes ed il Vescovo di Utrecht. Una tale divisione corrispondeva esattamente a quanto formulato nel trattato segreto di Milano.

 Cartina della Corona d’Aragona nel 1443

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Traduzione di Silverio Lamonica

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