Lamonica Silverio

La battaglia navale di Ponza del 1435. Alfonso il Magnanimo, di Alan Ryder (5)

Traduzione di Silverio Lamonica

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La conquista di Napoli (1436 – 1442) Con  la piccola  schiera  di  cortigiani  al suo servizio, Alfonso aspettava con impazienza l’arrivo delle galee di Pedro e delle nove navi noleggiate a Genova che dovevano trasportare a Napoli il suo esercito appena arruolato. Aspettava inoltre che un numero maggiore di nobili lasciasse presto la prigione per unirsi a lui, perché Filippo  Maria aveva accettato che essi sarebbero stati liberati senza riscatto, in cambio della rinuncia di tutte le pretese aragonesi su Bonifacio, Calvi, Portovenere e Lerici. Comunque, questo patto non piaceva ai Genovesi. La rabbia di Ponza, da allora, cominciò a levarsi tra loro, per l’indifferenza del loro Signore nei riguardi del loro amor patrio e dei loro interessi. L’aver ricevuto il re a Milano, l’aver accolto in trionfo Giovanni, con baldacchino e tutto il resto, nella loro città a fine novembre, la rinuncia al riscatto e, a coronamento di tutto, la sua insistenza che Genova dovesse fornire agli aragonesi navi ed esercito per conquistare Napoli, li portò sul punto di esplodere. La loro furia proruppe il 27  dicembre del  1435.

Capeggiati da Francesco Spinola, l’eroe di Gaeta, corsero in  massa dal Governatore appena si apprestò a ricevere il suo successore. Il tumulto si estese lungo la costa e  nel  giro di  tre giorni i milanesi furono  allontanati da ogni centimetro del suolo genovese. A poco era servito l’accordo di Alfonso a garantire il controllo di Filippo Maria sui suoi subalterni!

Le notizie della rivolta portarono il panico quando, il giorno dopo, raggiunsero Portovenere. Trovandosi improvvisamente circondato da nemici – La Spezia, fortezza genovese, era quattro miglia lontano – Alfonso disponeva di non più di duecento fanti italiani e di nessuna nave. I genovesi, ben consci della loro situazione, senza perdere un minuto, cominciarono ad armare proprio le navi che aveva noleggiato e con un gruppo all’interno della città, complottarono di prendere nuovamente prigioniero il re (1). Ma con la guarnigione ben allertata, e il rappresentante della repubblica impreparato, fallirono il colpo prima che arrivassero le galee dalla Sicilia la terza settimana di gennaio del 1436:  il re si salvò nel castello di Portovenere.

Alfonso s’imbarcò velocemente il 21 gennaio, prendendo il largo con sicurezza.

Nota 1 – Il 27 dicembre 1435 il Capitano ed il Consiglio degli Anziani di Genova scrissero ad un gruppo di cittadini a Portovenere : “innanzitutto desideriamo che segretamente, se possibile, con alcuni uomini di Portovenere deliberiate di catturare quel re, la qual cosa, se si vuole, si realizzerà facilmente. Invero potete dir loro che questo è il suo (ultimo) giorno. Poiché se con l’impegno e l’opera sua ci sarà restituito il re, che ci fu tolto con violenza, giammai (illeggibile) ” (in lat. NdT)

Renato d’Angiò (Renato I di Napoli, Renato di Sicilia) ed il suo esercito – Martial d’Auvergne, Vigiles de Charles VII, 1484

 

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Apprese, nello stesso tempo, di un altro colpo inaspettato, ma questa volta gratificante: la presa di Gaeta da parte di Pedro, il giorno di Natale. I venti contrari costrinsero la flotta dell’Infante diretta a Portovenere, a riparare ad Ischia. Mentre lì attendeva che il tempo cambiasse, un gruppo di fautori (degli aragonesi – NdT) di Gaeta mise a punto un piano per cogliere di sorpresa la città. Pedro era d’accordo e ciò che tanto spesso fu invano complottato, ora si realizzava senza alcuna difficoltà. I cospiratori s’impadronirono delle barriere,  le navi di Pedro entrarono in porto, prendendo la città senza colpo ferire. Un cronista napoletano attribuì questo successo sorprendente ad un’epidemia che spinse la fazione angioina fuori da Gaeta, mentre la fede negli  aragonesi rimaneva ben salda (2). Si potrebbe intravedere, in modo più plausibile, la mano di Filippo Maria negli addetti alla difesa di Gaeta, ceduta in base al trattato sottoscritto con Renato d’Angiò nel settembre del 1435 (3) e che solo un mese più tardi s’impegnò a mutare la situazione a vantaggio di Alfonso. Nel frattempo una delegazione gaetana arrivò a Milano in quello stesso mese di Ottobre, a ringraziare il Duca per averli aiutati contro gli Aragonesi, ma dovettero aver sentore che il tempo fosse cambiato; le truppe milanesi nel presidio, senza dubbio ricevettero ordini in linea con la nuova posizione di Filippo Maria (4). Subito dopo il trionfo di Gaeta, Pedro conseguì un altro successo spettacolare nel vicino porto di Terracina, possedimento papale. Ad un nuovo invito di una fazione all’interno delle mura, si accinse, senza alcuna opposizione, ad impadronirsi di un altro porto strategico.

Mentre Pedro difendeva queste conquiste, le galee al comando del capitano-generale Ramon de Perellòs, navigavano verso nord in cerca del re proveniente da Portovenere. Durante il viaggio di ritorno fecero scalo per due giorni a Leghorn per dare la possibilità ad Alfonso di discutere con gli ambasciatori di Firenze e col vescovo di Lérida, suo rappresentante alla corte papale.

Nota 2 – “L’infante, avuta l’imbasciata, fu molto contento e immediatamente decise di andarsene ad Ischia con le galee, e qui soggiornando per alcuni giorni, cominciò a interessarsi di mettere in crisi il reame di Gaeta, nei giorni in cui avvenne una grande moria di aragonesi, i quali, non curandosi affatto della moria che li affliggeva, resistettero con fermezza, senza allontanarsi, cercando di diffonderla tra gli angioini. I partigiani di Re Renato (d’Angiò) uscirono dalla città per paura della moria…” (Faraglia. Diurnalia,) (Trascrizione dall’italiano del ‘400) .

Nota 3 – vedi sopra, pag. 207 Lecoy de La Marche, Le Roi René, 142

Nota 4 – il trattato segreto stipulato: “nel frattempo, prima che lo stesso re d’Aragona ottenga le città anzidette (s’intende: Napoli ed Aversa) lo stesso Signore e Duca di Milano è tenuto a prestare segretamente i favori con i suoi, compresi coloro di stanza a Gaeta, i quali favoriscano ed assistano il medesimo sovrano re aragonese come sopra.” (Bagnetti, “Per la Storia, 280) (in lat. NdT). Il Principe di Taranto poteva ben valutare di quali azioni fosse capace Pedro.

 

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I fiorentini, mentre proclamavano la loro neutralità su Napoli, non nascosero la loro determinazione di sostenere Genova contro Filippo Maria. Il vescovo lo lasciò parimenti in dubbio, a causa della gelida atmosfera della curia, resa non più cordiale dall’exploit piratesco di Pedro a Terracina. [Alfonso – NdR] informato  in tal modo della reazione italiana alla sua resurrezione, simile all’araba fenice, il 2 febbraio 1436 veleggiò, al riparo dalle tempeste, alla volta del porto di Gaeta, che già lo aveva visto prigioniero sul ponte della nave di Assereto, non ostile, con i suoi uomini ed una schiera di baroni napoletani che si prostravano a ringraziarlo. Qui, per i sei anni successivi, fece la sede del suo governo.

Dopo mesi di stizza per l’inattività estranea alla sua natura, si rilanciò nella azione, impaziente a sfruttare i vantaggi che inaspettatamente gli si erano presentati. A dispetto di Ponza e dell’arrivo di Isabella, moglie di Renato [d’Angiò], [giunta] a Napoli il 18 ottobre 1435, gli angioini avevano totalmente mancato di approfittare della disorganizzazione del nemico. Isabella aveva portato denaro insufficiente per silurare Jacopo Caldora che aveva condotto con indolenza l’assedio di Capua, difesa abilmente  da Giovanni di Ventimiglia, allora gli defalcò il bottino accaparrato nelle province settentrionali dell’ Abruzzo. Aveva promesso a Isabella di tornare in aprile e porre fine agli aragonesi; quindi, almeno fino ad allora, Alfonso aveva virtualmente mano libera di agire a suo piacimento, o piuttosto come gli avrebbe permesso la sua borsa, per cui si aggrappò subito al fattore cardine che il denaro fosse la chiave della corona.

La vittoria dipendeva da due specie di uomini: proprietari terrieri e soldati. I latifondisti napoletani – Alfonso li aveva nominati “baroni e satrapi” (5) – sarebbero stati in numero sufficiente per soffocare l’opposizione nelle province strategiche. Terre, uffici pubblici, titoli, vitalizi, rendite erano l’esca che li avrebbe catturati, specialmente la volta in cui si fossero sentiti sicuri del suo trionfo finale (6).

I militari – gli Sforza, i Caldora, i Piccinino che controllavano le milizie mercenarie italiane – parimenti assetati di terre ed onori, dovevano essere costantemente foraggiati con grandi somme in contanti per tenere in piedi le loro forze militari. La fedeltà per una causa era un lusso che non potevano offrire. Le truppe portate dalla Spagna, dalla Sicilia o dalla Sardegna – ed Alfonso richiese prontamente una scorta spagnola, arcieri e nobili volontari – avrebbero pure richiesto un pagamento, perché nessuno era obbligato a servirlo a Napoli.

Nota 5 – “Baroni e Satrapi” (ACA 2695,59; 23 Aprile 1437)

Nota 6 – nel parlamentare in merito alla resa del Castello di Acerra nel dicembre del 1436, ad Antonello Barone fu detto di ricordare il Conte di Caserta, “che ricevette di più avendo accettato le condizioni, che prima” (ACA 2694, 69).

 

Traduzione di Silverio Lamonica

[La battaglia navale di Ponza del 1435. Alfonso il Magnanimo, di Alan Ryder (5) – Continua]

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