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Schizzi di salsedine da Ponza (19)

[1]

di Franco De Luca

 

Non sono incline ai ricordi perché coltivo più le speranze, ma oggi  a Ponza piove, e non è pianto di angeli.

Il cielo, nascosto alla vista, mi si è schiuso nell’immagine che ho coltivato da bambino. E mi si è imposto nella sua corposa bellezza l’idea che di esso (il cielo) mi diede don Luigi Dies.

Il cielo come luogo dove i pensieri, le aspirazioni, gli slanci trovavano la loro sede naturale e la loro essenziale consistenza. Di bellezza, di totale, incontaminata bellezza.

Riuscì in questo graduale, insinuante, persistente disegno, utilizzando la musica. Dovrei dire la canzone, ma non è esatto. Le parole, il loro significato, la loro poesia li raggiunsi in seguito, con l’età e gli studi. Ma la musica no, la melodia delle note, quella mi catturò subito.

Correggo, ci catturò subito. Perché quel manto di bellezza in cui ci trasportava don Luigi, ci vedeva tutti accorati. Parlo della generazione di Giosué Coppa, di mio fratello Aniello, di Ciccillo Costanzo, di Sebastiano Spignesi, ma anche di Luigi Ambrosino, Antonio, Gianfranco, Vittorio Spignesi.

Non solo. Accanto, separate, ma accanto c’erano le ragazze: Giovanna Conte, Angelina  De Luca. Iva.

Stavamo tutti lì, catturati delle melodie che si intrecciavano nelle voci corali fra i fumi dell’incenso che impregnavano la cupola della Chiesa, dandole una grandezza smisurata.

Una socialità intessuta di canti, una religiosità impastata di liturgia, una elevazione indotta  da cerimoniali e canti gregoriani. Tutti recanti al cielo, alla purezza del cielo, alla sua tersezza, alla bellezza.

Non so se questo mio sentire valga per i pochi che ho citato e per i tantissimi lasciati nella penna, e che erano a fianco quando, da bambini, partecipavamo alle funzioni religiose, officiate da don Luigi. So però che basta che Tonino Esposito accenni all’armonium un canto dell’Immacolata e fra coloro che ebbero il dono di conoscere don Luigi si insinua un comune sentire, un sussulto, una comune commozione.

Nonostante che l’età, quella che ci portiamo addosso, ci abbia allontanati da quel cielo, perché la fanciullezza e l’adolescenza si nutrono di atmosfere rarefatte, e il disincanto ci faccia rimanere più legati alla terra, nonostante che i giudizi sulle persone non siano più inficiati da sentimentalismo, l’idea di quel cielo persiste, come un residuo dell’innocenza. Ma persiste.

Tant’è che oggi che la pioggia a dirotto impedisce di discernere il finito sopra la testa, la figurazione del cielo mi è chiara, quasi diafana.

Nota – Colgo l’occasione per salutare tutti i compagni citati. Quelli che ci hanno lasciato sono nel cuore. Quelli non citati scusino la mia smemoratezza, ma possono star sicuri dell’affetto.

 

Francesco De Luca