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Cani di Ponza

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di Franco Zecca

 

C’è stato un periodo in cui Ponza è stata letteralmente invasa da cani. C’erano cani di ogni razza, di varia misura  e con tante caratteristiche morfologiche, ma sostanzialmente erano quasi tutti cani da caccia. Questo perché a Ponza, in due diversi periodi dell’anno, c’era la possibilità “di cacciare” l’avifauna da passo. Quindi giungevano dal continente, a frotte, cacciatori con armi e cani. Era anche, questa usanza, un modo di apportare ad alcune categorie vantaggi economici di notevole importanza. Quando però terminava il periodo di permanenza dei cacciatori, per vari motivi, Ponza si ritrovava ad ospitare i cani, spesso abbandonati volutamente; consapevoli i cacciatori di ritrovarli alla successiva stagione di caccia. I cani erano dappertutto, ma soprattutto era molto facile incappare nei ‘segni della loro presenza’ lasciati a dimostrare la loro occupazione del territorio. Per molte attività economiche (alimentari, bar, ristoranti) era diventato un problema. Si adottarono bottiglie d’acqua nei pressi della entrata dei negozi (pare spaventino i cani), colpi di bastone sulle porte, ma molti dovettero munirsi di acqua calda e creolina per pulire e disinfettare i posti su cui i cani, spesso randagi, lasciavano i loro escrementi.

In questo contesto voglio raccontare di tre cani che hanno lasciato, a chi li apprezza, bei ricordi, quel senso di vita, amicizia e rispetto che sono loro propri; insieme a  dolore e gioia, nostalgia e allegria.

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Era un cane di grossa statura, forse un incrocio tra bracco italiano e pointer. Quindi cane da caccia, probabilmente uno di quelli lasciati a Ponza dai suddetti ospiti. Se ne fece carico un personaggio ponzese che ricordo con affetto per le sue salaci battute, il suo modo pacato di dialogare e la sua disponibilità e cultura: Luciano Gazzotti, per tutti ‘Lucianino’. Quel cane lo seguiva ovunque, anzi lo precedeva. Erano affiatati e si capivano a cenni. Quando Lucianino lasciava il proprio lavoro sul tardi pomeriggio, si fermava in piazza, a fare due chiacchiere a volte con “Zi’ Ernesto” (Ernesto Prudente) con cui condivideva la fede politica, con “Biaggino” (Biagio Zecca) con cui parlava di turismo e gastronomia, o con “Amedeo ’u bbarbiere” (Amedeo Guarino) con cui parlava di caccia e altro. Era il cane che sceglieva la persona con cui discutere perché per primo si fermava dove il “vasolato” era più caldo; infatti si sdraiava davanti al locale di uno di questi tre interlocutori e rimaneva finché Lucianino al calar del sole diceva: – Mò me n’aggia ‘i, o’ cane ha ’itt jammuncenne” – E se qualcuno gli domandava: – Lucianì’ te si’ fatto o’ can’? – lui rispondeva: – No, è o’ can’ che s’è fatt’ a mme.

Ci hanno lasciato un grande senso di profonda amicizia e rispetto reciproco tra due esseri di diversa specie. Ciao Lucianì’.

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Il secondo esemplare di cane, che ricordo con un po’ di tenerezza e compassione, è Leo, un segugio di piccola statura, probabilmente, un “Epagneul Breton”, molto decantato anche dagli antichi greci, e che i popoli selvaggi della Bretagna, quelli che si dipingevano il corpo e il viso con variopinti colori, allevavano con cura, per la finezza dell’olfatto, superiore a quello degli altri cani. Quindi, un cane da caccia, attivo, vivace, e che essendo di “proprietà” dei fratelli Feola era anche un cane da pesca. Mi spiego: quando la zaccalena dei Feola stava per salpare per la pesca, era sempre il primo a saltare sulla barca, e quando i componenti di equipaggio erano intenti a tirare le reti, correva da prua a poppa, quasi a partecipare anch’esso alla pesca. Mi si riferiva, all’epoca, che Leo non stava mai fermo sulla barca. Ed era incurante del cattivo tempo e del mare mosso. Ma fondamentalmente era un cane da caccia, e quindi, andava a caccia con i fratelli Feola.

Fu durante la processione di S. Silverio, non ricordo di quale anno, che divenne “Tre cilindri”. In quel tempo, sulla spiaggia di S. Antonio venivano distese, le “batterie” (filari di colpi d’artificio) che venivano accesi al passaggio del Santo.

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Per il suo istinto di cacciatore Leo, abbaiava e correva, saltando tra e contro quei colpi, pensando fossero colpi di fucile. Mal gliene incolse, perché uno di quei botti gli scoppiò fra le zampe. Fu trovato tra i blocchi di cemento che guaiva e si lambiva un moncherino di zampa. Fu portato dal farmacista che fermò l’emorragia e fasciò il resto della zampa. Dopo un po’ di tempo lo rivedemmo, sempre al seguito dei fratelli Feola, che ne ebbero cura ancora di più, ubbidiente ai comandi anche se non saltava più per primo sulla barca, ma attraversava la passerella come gli umani, e una volta a bordo, si fermava in un cantuccio adibito apposta per lui. Non era più quel cane attivo, energico e vivace, ma aveva mantenuto nella disgrazia un contegno che possiamo definire “dignitosamente umano” con i propri limiti e debolezze, pur essendo un animale.

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La singolarità della razza del terzo cane è l’aspetto fondamentale di quanto sto per ricordare. Venne a Ponza tanti anni fa un famoso regista di cinema di teatro, napoletano, Peppino Patroni Griffi, autore di commedie e drammaturgo tra i più famosi d’Italia negli anni del boom economico. Al suo seguito c’erano belle ragazze, attori fascinosi e dive molto famose per l’epoca e al suo fianco c’era sempre un bellissimo levriero afghano, dal portamento altero, l’espressione intelligente, l’andatura flessuosa e regale. Ne rimasi molto impressionato e affascinato, tanto da volerne adottare uno anche io. E quindi, appena mi fu possibile, con i primi soldi del mio lavoro da impiegato, andai, ispirato e guidato da mio cugino Sandro, ad Ardea, dove c’era l’allevamento di cani levrieri afghani della prof.ssa Cornelia Jutta Steltzer. Tornai a Ponza con Ashgardario  (“Piccolo che mantiene il bene”) nome originale che io abbreviai  in Dario. Tutti accolsero il mio amico cane, dapprima in maniera diffidente: “Ma addo vaje cu’ chella scigna” (Ma dove vai con quella scimmia): era pelosissimo ed i suoi movimenti di cucciolo erano alquanto impropri. Poi con l’andar del tempo divenne simpatico a tutti i miei amici e conoscenti. Era uno spettacolo vederlo correre sulla spiaggia di S. Antonio. Quando poi lo portavo con me in barca, era sempre a prua con il muso al vento ed i suoi peli ondeggiavano nella brezza, ma non amava molto il mare, essendo un cane fondamentalmente “pastore”. Comunque, era un esemplare da compagnia e mi precedeva sempre quando nel tardo pomeriggio andavo a trovare Anna, la mia futura moglie.

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Eravamo tutti molto affezionati a Dario, quasi fosse un figlio, un fratello, un amico, e credetemi, quando fui trasferito in continente, per motivi di lavoro, sapendo che non avrei potuto più tenerlo con me, soffrii molto, allorché dovetti riportarlo alla signora che me lo aveva dato. Con il cuore spezzato lo lasciai nell’allevamento.

Una parte della mia vita era passata: la gioventù, che mi aveva regalato un amico che ora non era più con me. Mi si affacciava un futuro diverso, e comunque non privo di quelle  emozioni che sanno dare gli amici. Ma non ho più voluto prendere un cane per amico.

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Francesco Zecca