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Ialò

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di Tina Mazzella

 

Alla cortese attenzione della Redazione

  

Sono una ponzese che da tanti anni vive lontana dall’isola.

Dopo avere visitato il vostro sito, ho pensato di inviarvi un racconto tratto dalla mia raccolta “Storie di altri tempi” pubblicata nel 1991.

Esso è dedicato alla vita di mio nonno Agostino, emigrante per molti anni in America.

Se riterrete opportuno, mi farebbe piacere che fosse pubblicato a beneficio dei vostri Lettori.

Nel complimentarvi per il vostro prezioso lavoro, vi ringrazio ed invio cordiali saluti.

 

Tina Mazzella

 

Ialò

 

Il suo nome era Agostino, ma tutti in paese lo chiamavano Ialò; lo chiamavano così da quarant’anni, da quando, rimpatriando dall’America, aveva portato con sé un gruzzolo di dollari e l’ormai proverbiale faccia gialla.

Aveva più di ottant’anni, ma non li dimostrava: il corpo, ancora agile e snello, sembrava ignorasse gli insulti dell’età e delle fatiche. Anche gli occhi, vivi più che mai, erano grigi e conservavano qualche guizzo del fascino giovanile, che aveva attratto, in tempi ormai lontani, l’attenzione di un buon numero di fanciulle speranzose.

Ialò era sempre stato un uomo imprevedibile: sapeva essere al tempo stesso serio e burlone, severo e comprensivo.

Adulti e bambini ne cercavano la compagnia e nelle ore di riposo si ritrovavano nel suo cortile, davanti alla casa, pronti a discutere, a scherzare o ad ascoltare.

Molti si chiedevano se i fatti che andava narrando fossero realmente accaduti, perché talvolta le parole del vecchio suonavano strane ed incredibili; tuttavia questo non era poi così importante. Ciò che maggiormente contava era divertirsi ed ammazzare il tempo in allegria.

Del resto, perché inimicarselo? Anche le sue bugie, peraltro spontanee ed innocue, apparivano spesso molto più avvincenti e colorite della realtà.

I bambini lo amavano in modo particolare per le straordinarie storie che raccontava.

Quasi ogni sera, prima di andare a letto, lo inducevano a parlare dell’America lontana e misteriosa, delle navi grandi come palazzi galleggianti che solcavano i mari per approdare sicure nel nuovo continente; le imprese della Mano Nera che rapiva senza pietà i fanciulli dispettosi li incuriosivano ed insieme li spaventavano. Vedevano con la mente i lunghi e veloci treni, che correvano sotto terra; percorrevano con il ricordo del vecchio le strade lunghe e larghe delle metropoli nordamericane e sognavano di abitare in quegli audacissimi grattacieli, costruiti quasi per sfidare le nuvole.

Gli occhi dei piccoli amici lo guardavano allora incantati ed insieme ai loro, ugualmente incantati e trasognati, parevano quelli di Ialò.

A volte il suo sguardo era velato da una struggente nostalgia che, con l’incalzare dei ricordi, diveniva rimpianto.

Di certo non rimpiangeva la stentata esistenza di emigrante, né la vita errabonda alla ricerca di un riparo per la notte e neppure il faticoso lavoro sulle impalcature, mentre innalzava grattacieli o costruiva ponti.

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Forse odiava gli anni vissuti in solitudine lontano da casa, quando, straniero in quelle terre ostili e sconosciute, si guadagnava da vivere.

In quel tempo tutto  lo metteva in difficoltà e lo isolava dal resto del mondo: la lingua che la maggior parte della gente delle contrade d’oltre oceano, all’infuori di lui, sapeva comprendere ed usare con tanta disinvoltura, le occhiate sprezzanti e diffidenti degli abitanti di quelle città, gli abiti logori e le mani nere, ricoperte di ferite e di calli, gli gridavano in ogni istante di essere un diverso e gli facevano maledire il giorno in cui era giunto in America.

Tuttavia i sogni giovanili, le speranze, la decisa volontà di lottare e di vincere ad ogni costo ravvivavano il grigiore di quella squallida esistenza quotidiana. Allora ogni cosa appariva meno dura e più accettabile, più dignitosa ed umana. La forza della giovinezza gli faceva presagire un futuro migliore per sé e per i figli che lo aspettavano al paese.

Poi il tempo aveva fatto sfumare molti sogni; all’antico desiderio di combattere ed alle speranze si era quasi inavvertitamente insinuata la rassegnazione e forse un po’ di  stanchezza; cosicché, quando si soffermava sul passato, si accorgeva che la luce sfumata del ricordo ne illuminava fiocamente i contorni e lo abbelliva disperdendone le ombre.

Aiutato dal barlume di ironia che lo aveva sorretto nei momenti più bui della vita, Ialò a poco a poco aveva imparato a sorridere con compiaciuta fierezza, allorché ripensava al primo e rischioso viaggio da emigrante clandestino verso quelle terre lontane.

Non ancora ventenne, con la mente invasa da innumerevoli progetti, era espatriato su una nave mercantile lenta e sudicia chiamata “Purgatorio” e la sua odissea, degna del più rigido dei Purgatori, si era protratta per quaranta giorni, durante i quali, per saldare completamente il debito del viaggio, aveva lavorato come sguattero e aveva pulito i gabinetti.

Poi, più sbigottito che mai, aveva raggiunto New York.

Gli era apparsa da lontano come un miraggio; il vasto porto, le  luci, le ampie strade lo avevano affascinato lasciandolo senza fiato.

Eccitato e trionfante era sbarcato in America con la “piacevole compagnia” di un piccolo esercito di pulci e di pidocchi anch’essi clandestini, antichi ospiti della “vecchia carretta” del mare.

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Queste ed altre disavventure del vegliardo circolate di bocca in bocca, inducevano i bambini del circondario a ritenere che costui potesse essere la reincarnazione di Cristoforo Colombo, e, quando a scuola il maestro illustrava le vicissitudini del grande navigatore genovese, tutti convenivano che Cristoforo Colombo fosse Ialò.

Così l’antico emigrante in modo insperato divenne il loro eroe e la sua figura, mitizzata dagli episodi che andava narrando, passò quasi alla storia.

Molti altri viaggi avevano seguito il primo: l’uomo, metodico e preciso, li aveva effettuati ogni due anni e, ogni qual volta aveva fatto ritorno al paese d’origine, vi aveva lasciato regolarmente qualche soldo da investire in banca ed un nuovo figlio da mantenere.

Erano nate così otto bocche da sfamare, di cui quattro erano maschi ed era stato perciò necessario trovare per loro un lavoro dignitoso, che potesse compensare i duri sacrifici in America.

Per le ragazze non esisteva questo problema; non era importante istruirle; bastava allevarle sane e laboriose sino al giorno in cui qualcuno le avrebbe sposate.

Dopo avere sistemato la prole, Ialò decise finalmente di stabilirsi al paese natio, e tra nuore, figli e nipoti il tempo era volato. Gli inverni avevano spazzato gli autunni, mentre la vita era trascorsa pigra e tranquilla nella sua casa. Le immagini della miseria americana erano sbiadite nel ricordo; anche gli entusiasmi giovanili a poco a poco si erano spenti.  Dentro di lui si erano consolidate intanto una pace, una calma sconosciute, scaturite dall’adattamento ad una esistenza opaca e sonnolenta.

L’abitazione che Ialò aveva costruito lentamente con il proprio lavoro era diventata il suo mondo e, materna e sicura, sembrava garantirgli un’eterna protezione. Era grande e comoda, gli appariva quasi maestosa, se la paragonava alle piccole case basse dei vicini, quasi scavate nella roccia.

Con i quattro appartamenti che la componevano, le sovrastava tutte come una reggia,  circondata dall’ampio cortile e, in posizione sopraelevata, arricchita dal giardino coltivato a terrazza, che si affacciava sul mare.

Visto da lassù, il mare assumeva un aspetto familiare e mostrava un volto amichevole e generoso. Rinunciava alla selvaggia immensità, per divenire finito e circoscritto, imprigionato tra le rocce della baia.

Nelle notti di luna, Ialò lo contemplava a lungo e se ne sentiva affascinato. A volte gli si rivolgeva come ad un essere vivente e gli parlava; gli chiedeva quanti segreti conoscesse e quanti tesori i suoi fondali misteriosi custodissero gelosamente. Quando poi, specie nelle notti senza luna, si recava alla pesca dei totani pareva felice come un bambino. Partiva con la vecchia e scricchiolante “Forturella” e con pochi amici; trascorreva lunghe ore sul mare, ne respirava profondamente il profumo e ne avvertiva i palpiti: lo trovava vivo e fremente come le sue creature. Guardava con ammirazione i pesci che riusciva a catturare, prima di depositarli nel secchio: potevano essere grandi o piccoli, ma tutti erano perfettamente modellati ed il loro corpo affusolato ed ancora guizzante appariva quasi irreale nella molteplicità dei colori.

Tuttavia Ialò era uomo di terra, lo era stato da sempre; sebbene non più giovane, dedicava molte ore della giornata al lavoro dei campi.

Possedeva poche are magre e perennemente assetate, ricevute in eredità dai genitori, in cui praticava una agricoltura promiscua, capace di rifornire la famiglia di frutta, legumi, ortaggi e vino.

La terra al paese non era né grassa, né generosa: i piccoli appezzamenti, aridi e brulli, spesso richiedevano cure particolari, per poi produrre scarsi raccolti.

Era stato così da sempre in quell’isola e questa era stata la ragione per cui molti intraprendenti come Ialò avevano tentato altrove la  fortuna.

Il vecchio sapeva tutto questo e ciononostante amava i propri orti, la “Cavata”, e non si sarebbe mai stancato di coltivare quegli esigui fazzoletti che i genitori gli avevano affidato, perché dessero frutti. Era certo che non si sarebbe più distaccato dai fichi o dalle viti; talvolta si sentiva colpevole di avere abbandonato per tanti anni i propri campi e si rimproverava di averne affidato ad altri la cura.

Anche gli antenati li avevano coltivati, con fatica, con rabbia, con pazienza, con amore e non si erano stancati di essere “uomini di terra”, non avevano tentato di ricercare altrove la fortuna, come aveva fatto lui.

Forse per questo aveva impedito ai figli di seguirne l’esempio e di trasferirsi nelle terre d’America. Essi ricordano ancora quando il vecchio ripeteva loro categorico:

“Questa deve essere la vostra America, la vostra casa.

La vostra terra potrà diventare l’America, se muoverete le braccia per lavorare ed userete il cervello per pensare”.

 

Tina Mazzella