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U’ summariell’ e le barche (3)

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di Pasquale Scarpati 

Per la puntata precedente, leggi qui [2]

Vicino agli scogli della banchina nuova si aggira Rafele u’ Barbariello con una barca: ha sicuramente qualche problema alla vista o ha perso gli occhiali, avanza infatti molto lentamente, a remi, guardando attentamente verso gli scogli, alla ricerca di qualcosa che forse ha perduto. Spesso immerge nell’acqua una sorta di parallelepipedo di legno chiuso ad un’estremità da un vetro, poi vi introduce la testa. All’improvviso, però, riacquista vista ed energia: afferra in un baleno, come Nettuno, ’nu lanzaturo e lo immerge violentemente nell’acqua. Quando lo solleva, quasi sempre, c’è qualcosa di scuro attaccato alla fiocina.

Nella rada sfreccia anche Luigi con il sandolino monoposto, bianco, lucente e basso, a pelo d’acqua, sembra un’auto di ‘formula uno’; lascia una scia sottile che permane a lungo nel mare calmo e tranquillo.

Mi soffermo tante volte a guardare, tra ammirazione e invidia, le barche di Gigino che fanno bella mostra di sé davanti al bar di  Veruccio  u’ Chiattone, tra Gennarino a Mare e la spiaggia di Sant’Antonio. Stranamente in barca non soffro mai il mar di mare. Qualche volta, pur di salire su di una, vado a pulire quella di Franco il fruttivendolo, poi sciolgo gli ormeggi e faccio una bella remata. Se, per caso, incrocio qualche amico su un’altra barca, immediatamente il remo, per salutarlo, rifiuta di immergersi nell’acqua; preferisce rimanere a raso per inviargli molteplici schizzi d’acqua. A volte fermo il natante vicino agli scogli che si trovano tra u’ Cas’cavallo e la Ravia, scendo, poggio i piedi nudi sugli spuntoni di roccia e, imitando il volo degli uccelli, avanzo allargando ed oscillando  le braccia come un equilibrista per raggiungere la meta: le buche dove si è formato il sale per effetto dell’evaporazione dell’acqua marina.

All’età di otto anni, verso le sette di un mattino estivo, vado calpestando il pavimento delle banchina nuova diretto al negozio di papà, aspettando le nove, quando dovrei andare dalla signora Sofia, la maestra, per ripetere qualcosa. Incontro Franco, mio coetaneo, che, in quel momento, scende dalla sua barca.
Addò vai? – chiedo.
–  A piglià i’ scope da Nanninella ’ncopp’ ’a Ponta Janca
– E ppo’? –
– L’aggia purta’  a pàteme – risponde.
– Pozz’ veni’ cu’ te?
Così ce ne andiamo in  barca fino a Santa Maria.

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Tanto ho tempo e poi me ne torno a piedi – penso; u’ ‘ruttone ‘i Santamaria, orrido antro della Sibilla, è lontano dai miei pensieri!
 Sulla spiaggia di Santa Maria troviamo Luciano e Lucia, quasi coetanei:
Perché non andiamo a vedere le Grotte Azzurre?
Quelle stanno là vicino, non ci vuole niente..! E poi, sceso dalla barca, me ne torno velocissimamente al porto, come Nembo Kid – penso.

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Nelle Grotte Azzurre ogni cosa che viene immersa nell’acqua, come per miracolo, si tinge di azzurro più o meno intenso. La prima grotta, quella dall’apertura più alta e più ampia, è poco profonda; la seconda, quella centrale, è più profonda ma l’apertura è più bassa. Uno spuntone di roccia ci viene incontro quasi a voler ostacolare l’intrusione di estranei per cui bisogna  abbassare la testa, come ad inchinarsi alle bellezze che si nascondono.
- Avàsci’a capa – ordina Franco, il capobarca; noi ubbidiamo, ma solo all’ultimo momento.
All’interno vi è una spiaggia fatta di grossi ciottoli; la terza grotta, quella con l’apertura ancora più bassa, come tutte le cose più belle si mantiene celata per essere scoperta con un po’ di coraggio, un po’ di sacrificio ed anche a volte con un po’ di artifizio; per arrivarci, infatti, bisogna scendere dalla barca e nuotare. Neppure il sandolino di Ciccillo ’e Maestà, con il vogatore a bordo, riesce a profanare il suo incanto: bisogna infatti che questi, per entrare, si cali a mare e spinga il natante. Noi, in quel momento, non osiamo tanto, ci limitiamo ad arrivare alla spiaggetta, ci divertiamo nel vedere come i remi diventino azzurri e poi, quasi  increduli e come per verificare, immergiamo le mani ed i piedi.
Lucia propone: – Perché non andiamo a vedere le grotte di Pilato?  (fin da piccoli è palesemente manifesto chi propone e chi… ubbidisce, bah!).

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Penso: – Ancora meglio, si trovano più vicino al luogo dove devo andare: al ritorno scendo  al molo o alla banchina nuova e così faccio l’utile e il dilettevole. 
Arriviamo alla meta, appoggiamo la barca nell’incavo situato al centro del muro della peschiera (il mare è tranquillo e la barca non si muove quasi, ondeggia un pochino), esploriamo con calma l’antico monumento romano. Una volta usciti, però, non riusciamo a guadagnare il porto. Facciamo fatica e forza sui remi ma, come ci fermiamo, il vento ci sospinge al largo. Tentiamo di nuovo aiutandoci anche con i  pagliuoli: nulla. Gli spruzzi ci bagnano tutti. Qualcuno mette i piedi fuori, a poppa, e cerca così, dando un’ulteriore spinta, di  aiutare Luciano e Franco che agiscono sui remi: nulla. Stiamo sempre lì: un po’ avanti e un po’ indietro. Non facciamo in tempo a darci il cambio, che il vento ci risospinge al largo. Comunque, con notevoli sforzi, riusciamo a mantenerci al di qua d’u’ Scoglie Russ’. Stremati, ci aggrappiamo a ‘nu petagno: viene su. Tiriamo a bordo la  nassa e peschiamo un grosso polpo; Franco, più esperto, lo prende e lo mette in barca, Lucia strilla e si rifugia a prua, io lo evito, Luciano, un po’ più grande d’età, continua a spingere sui remi. Nel frattempo vediamo barche che, al largo, fanno rotta, forse, verso Palmarola, ma noi non facciamo nulla per segnalare la nostra presenza. Finalmente qualcuno ha l’idea di drizzare la prua verso la costa anche se il mare ci sospinge verso i faraglioni della Madonna; riusciamo ad avvicinarci alla costa poco al di là delle grotte di Pilato; costeggiando, in breve le oltrepassiamo. Ad un certo punto, in parallelo alla scogliera del molo, sento strillare: “Eccoli, eccoli”.  Per prima cosa il mio sguardo si alza e corre, impaurito, all’orologio della piazza: le tre e un quarto del pomeriggio! E adesso chi li sente i miei! Battipanni, scup’liaturo, cucchiara, eventuale currea a luvatore, pronti all’uso! E’ quello il mio solo ed unico pensiero, non altro.
Sul lanternino c’è una piccola folla, mi pare di riconoscere mia cugina Civitina che agita le braccia. Scendo alla banchina sotto le scalette della  Ponta Janca, lì mi attende zia Malvina che, per la prima e l’unica volta in vita sua, mi dà uno scappellotto.  Sono impaurito ma solo per la punizione corporea; mia madre, invece, mi abbraccia e si scioglie in lacrime. In seguito mi hanno raccontato che, non vedendomi arrivare a casa, prima mi avevano cercato nei dintorni, poi avevano mandato mio fratello ai Conti dalla nonna materna, poi a Chiaia di Luna, poi avevano aspettato il ritorno di Gigino da Zannone con la speranza che io stessi con lui. Vedendo che non c’ero da nessuna parte, avevano chiesto ai proprietari delle barche a motore di andare in perlustrazione; quelli immediatamente avevano sciolto gli ormeggi dirigendosi  al largo verso Palmarola o Ventotene, poiché quel giorno il maestrale si era alzato prima del solito.

Io, però, non per questo rinuncio alle barche e alla pesca. Imperterrito continuo a saltare su di esse, a tendere l’orecchio se qualcuno che conosco deve fare una battuta di pesca.

Pasquale Scarpati

(U’ summariello e le barche  (3) – Continua)