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L’avventura africana di Eugenio alla conquista dell’Impero (8)

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di Antonio Usai

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Da Decameré ad Adigràt

All’arrivo di Badoglio in Africa, la Divisione di cui faceva parte Eugenio doveva ancora completare il suo trasferimento da Decameré ad Adigràt, secondo le direttive impartite dal Maresciallo il 18 novembre. La divisione 3 Gennaio era stata destinata, in una prima fase, alla costruzione della strada carrozzabile Adigràt-Macallè, indispensabile per la ripresa delle ostilità e per facilitare la penetrazione delle truppe italiane a sud, verso l’Amba Aradam.

Dopo appena una settimana di sosta a Decameré, la Divisione iniziò il trasferimento, a tappe forzate, ad Adigràt: una parte delle truppe doveva spostarsi a piedi, utilizzando i muli per il trasporto dei materiali; l’altra parte, quella più fortunata, a bordo di autocarri. Eugenio, in quale gruppo fu inserito? Non se ne ha notizia, ma c’è da azzardare che sia andato a piedi.

La mattina della partenza, la sveglia alla truppa fu data prima del solito, alle tre. Dopo la distribuzione del caffè, i soldati, servendosi della luce dei fuochi accesi presso il bivacco, smontarono le tende, e in breve tempo completarono l’affardellamento. Alle cinque, prima che spuntasse l’alba, tutti erano pronti a mettersi in marcia.

Lasciata la base, ai militi fu possibile leggere, sulla roccia di un alto picco sovrastante la strada, una frase d’incoraggiamento scritta dall’Intendenza con vernice nera a caratteri cubitali: “Chi osa vince”.

I motori riempivano l’aria con il loro rombo possente. I veicoli, carichi di uomini e materiali fino all’inverosimile, a ogni irregolarità della strada sobbalzavano e, a volte, sembravano sul punto di rovesciarsi. Percorsi i primi chilometri sulla vecchia strada, iniziò il tratto appena ricostruito dagli italiani: da quel momento, la marcia degli automezzi, che con i potenti fari illuminavano a giorno il percorso, divenne molto più agevole.

La prima tappa fu Saganeiti, distante ventisette chilometri da Decameré. L’autocolonna giunse a destinazione intorno alle ore 17 e gli autisti ebbero l’ordine allineare gli automezzi nella piazza d’armi del villaggio. I militi scesero dai camion e montarono diligentemente le tende nel piazzale. A sera inoltrata, anche la truppa appiedata giunse a destinazione.

Saganeiti era una bellissima località, molto popolata, ricca di vegetazione e di piante di alto fusto, con eleganti palazzine costruite all’italiana, circondate da graziosi giardini e viali di eucalipti. Nel villaggio c’era una piccola chiesa cattolica con suore e padri missionari italiani, che gestivano una scuola e un ospedale. La sera, si spandevano nell’aria i rintocchi delle campane della missione e ai militi sembrava di stare a casa.

Dopo una notte particolarmente fredda – nonostante i soldati avessero tenuto indosso il maglione e il pastrano – trascorsa in dormiveglia sul duro terreno, la sveglia suonò un’ora prima dell’alba. Ai primi bagliori, iniziò la partenza verso la seconda tappa.

Lasciata Saganeiti, che si trova a quota 2.300 metri sul livello del mare, attraverso zone impervie e rocciose, con profondi burroni che scendevano a precipizio ai bordi della strada, l’autocolonna giunse a quota tremila e, alle 11.45, ad Adi Caièh, un villaggio sorto su una collina, che domina un’ampia vallata.

Ad Adi Caièh c’erano alcune villette con giardini all’europea, un’ampia caserma di tucul per indigeni e un maestoso forte. Il villaggio era abbastanza popolato. Alcuni ragazzini indigeni si avvicinarono ai soldati cantando, in perfetto italiano, l’Inno dei Goliardi ed altre canzoni patriottiche, che avevano imparato nella scuola italiana. Le camicie nere, fiere che la dottrina fascista fosse giunta anche nelle remote contrade africane, in cambio di un saluto romano, furono ben contente di distribuire qualche moneta a quei marmocchi. 

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Propaganda fascista sull’uso dei gas contro gli etiopi

Durante la breve sosta, i soldati ebbero solo il tempo di consumare il rancio, poi ripresero il cammino.

Passate altre due ore, l’autocolonna si fermò a Senafé, un importante centro di stoccaggio di viveri e materiale bellico, per rifornirsi di carburante. La tappa vera e propria, la seconda dalla partenza, era il Forte Cadorna, distante una decina di chilometri da Senafé: qui, la Divisione piantò le tende per la notte, a 2.800 metri sul livello del mare. Dopo il tramonto, un vento gelido investì i soldati stretti nei loro pastrani dentro le tende. Prima di addormentarsi, al lume di una candela, alcuni militi trovarono a mala pena la forza per scrivere a casa.

Il mattino seguente, a causa del freddo intenso della notte, i camion incontrarono qualche difficoltà a rimettersi in moto. Alle 6.30 la Divisione lasciò il Forte e proseguì verso sud e, dopo una decina di chilometri, superò il limite del vecchio confine eritreo. Da quel punto in avanti iniziava il territorio etiope e la strada cominciava la discesa, in alcuni tratti molto pericolosa, fino a raggiungere una pianura, fertile ed estesa, circondata dalle montagne.

Per giungere alla meta, la cittadina di Adigràt, restavano da percorrere ancora una trentina di chilometri, attraverso vaste pianure, che terminavano con pareti verticali e imponenti muraglioni rocciosi. Alle 10.00, l’autocolonna arrivò a destinazione, seguita, il giorno dopo, dai militi appiedati.

Il viaggio di trasferimento di Eugenio dall’Italia al fronte di guerra etiopico, dopo mille vicissitudini, patimenti, cambiamenti climatici, paesaggi cangianti e mai conosciuti, poteva ritenersi finalmente concluso! Ma il bello doveva ancora venire…

Adigràt aveva una grande importanza strategica, perché era il passaggio obbligato delle vie di comunicazione tra il nord e il sud del paese. Il villaggio, situato in una vasta pianura, possedeva enormi depositi di materiali di ogni genere, viveri e munizioni, che si rivelarono utili per la battaglia decisiva: quella dell’Amba Aradam, la principale montagna della regione dell’Endertà, che avrebbe segnato il destino degli abissini ma anche quello di tanti italiani.

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Sette mesi dopo la presa di Addis Abeba, il 15 dicembre del ’36 Eugenio fu rimpatriato e smobilitato, giusto in tempo per trascorrere le festività natalizie a casa. L’ultima sua sede di servizio in terra africana fu Asmara.

La capitale dell’Eritrea, la prima colonia italiana, presentava all’epoca un aspetto elegante e moderno. C’erano bellissimi edifici e una Cattedrale cattolica che Eugenio frequentava nel tempo libero; il teatro, la Casa del Fascio, il Palazzo del Governatorato ed altri ancora. Finita la guerra, per certi aspetti, Asmara sembrava una città italiana: a mezzogiorno si udivano le sirene degli stabilimenti industriali, che sospendevano le attività per la pausa pranzo, mentre il traffico era molto intenso, fatte le dovute proporzioni: automobili private e autocarri correvano su strade bene asfaltate, ampie e belle, con numerose casette contornate da lussureggianti giardini.

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I militari in libera uscita cenavano nei ristoranti della città gestiti da italiani. La cucina era buona. Si servivano specialità italiane ma il prezzo era piuttosto caro: per una cena normale si spendeva quindici-sedici lire a persona, pari a due giornate di paga di un soldato. Anche Eugenio, come tanti altri militi, di tanto in tanto, si concedeva una serata con gli amici, per gustare i buoni piatti della tradizione italiana, che nulla avevano a che vedere con il rancio della caserma.

Molte Divisioni di camicie nere e dell’esercito furono rimpatriate appena finita la guerra, e comunque entro l’estate del ’36. Per lungo tempo non si seppe nulla del programma di rientro della divisione 3 Gennaio, quella di Eugenio. Le autorità militari locali non erano in grado di prevedere una data sicura. Tutto dipendeva da Roma. A novembre inoltrato (Eugenio era in Africa da più di tredici mesi) tra i militi si sparse la voce di un incombente rientro della Divisione in Italia. Con grande gioia dei militi, che non ne potevano più dell’Africa, del clima tropicale, delle pulci, delle cimici e della fame. Non vedevano l’ora di riabbracciare le famiglie e di dormire in un vero letto anziché sulla nuda terra!

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Eugenio rientrò in Italia con il piroscafo Lombardia, che trasportò l’intera divisione 3 Gennaio. Si trattava di una nave passeggera molto veloce, che con la sua grossa mole bianca troneggiava ormeggiata nel porto di Massaua. Il piroscafo percorse a ritroso la rotta Massaua–Suez-Port Said–Napoli, attraverso il Mar Rosso, il canale di Suez, il Mediterraneo, lo stretto di Messina e il golfo della città partenopea.

Le operazioni d’imbarco a Massaua durarono un paio di giorni, con i militi acquartierati alla meglio in prossimità della città, infastiditi dal pessimo clima tropicale.

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L’Africa Orientale Italiana cessò ufficialmente di esistere alla fine del 1941, per mano degli inglesi: l’Italia, oltre all’Etiopia, perse anche la Somalia e l’Eritrea, la più antica colonia d’Africa, che divenne un protettorato inglese. I sogni imperiali del duce in Africa erano durati soltanto cinque anni, dal ’36 al ’41.

L’Italia, dopo aver impegnato centinaia di migliaia di soldati, operai e contadini; dopo avere speso ingenti somme di denaro per conquistare, ricostruire e ammodernare i territori d’oltremare, si trovò costretta ad abbandonare l’Africa incalzata dalle truppe britanniche.

L’Etiopia ritornò al suo legittimo imperatore, Hailé Selassié, il Re dei Re. Il Negus fece il suo ingresso trionfale in Addis Abeba, il 5 maggio, nel quinto anniversario dell’entrata trionfale del generale Badoglio nella capitale abissina.

Antonio Usai

L’avventura africana di Eugenio alla conquista dell’Impero  (8) – Fine)