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L’avventura africana di Eugenio alla conquista dell’Impero (7)

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di Antonio Usai

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Dal mare all’altopiano

Il trasferimento delle truppe verso l’altopiano ebbe inizio nella stessa giornata dello sbarco: in pochi giorni, oltre quattromila uomini della 4^ Divisione, con un movimento ininterrotto di camion, furono autotrasportati a Decameré, una località sull’altopiano.

Prima che l’autocolonna si mettesse in marcia, furono distribuite le cartucce a tutti i soldati, con l’ordine di caricare il moschetto: Eugenio sentì un brivido nella schiena. Quella disposizione intendeva ricordare che si era ormai in zona di guerra e che la possibilità di entrare in combattimento da un momento all’altro era piuttosto concreta.

Decameré, 2.060 metri sul livello del mare, situata in una depressione dell’altopiano eritreo, era una cittadina sorta per l’occasione della guerra come luogo di smistamento dei rifornimenti all’esercito operante. Il centro abitato era costituito da un migliaio di baracche in legno e da numerose costruzioni provvisorie, tirate su alla meglio dall’Intendenza per l’Africa Orientale.  C’era anche un grandissimo cantiere della LICELP, una società civile di Roma, che aveva appaltato la quasi totalità dei lavori stradali in Eritrea, mentre le società di autotrasporti avevano grandi officine per la riparazione degli autoveicoli.

In quel periodo autunnale, il clima di Decameré era abbastanza gradevole, anche se un po’ ventoso oppure nebbioso.

La camionabile Massaua-Asmara, nel tratto appena ricostruito dagli italiani, era una strada moderna con il manto bitumato e curve sopraelevate. Nei punti ancora da ricostruire, l’autocolonna che trasportava la divisione di Eugenio, la 3 Gennaio, più volte dovette fare i conti con le buche profonde e i tratti polverosi: gli automezzi sobbalzavano paurosamente e le ruote affondavano nella polvere.

Giorno e notte, c’era un grande movimento di autocarri, di soldati e di quadrupedi: migliaia di muli, asinelli ed anche cammelli acquistati in Sudan o nello Yemen. Durante il viaggio si incontravano moltitudini di operai italiani e indigeni impegnati nel lavoro di finitura della sede stradale, che sopportavano con abnegazione la fatica, le molestie degli insetti e il cocente sole africano.

I lavoratori stradali salutavano festosi quando transitavano le autocolonne con le truppe coloniali. Sulle loro baracche, nei cantieri, apparivano giganteschi fasci littori e scritte in caratteri cubitali che esaltavano la patria, l’eroismo dei soldati italiani, il fascismo e il duce, a testimonianza del loro fervore patriottico.

A tratti, la strada costeggiava la ferrovia che collegava, tramite due littorine, in tre ore, Massaua con Asmara: era una linea modesta, a un solo binario a scartamento ridotto, appena risistemata dagli italiani e ben tenuta.

Tutt’intorno alla strada la natura appariva davvero matrigna, perché non un filo d’erba cresceva su quel terreno accidentato e ricoperto di sassi!

Dopo avere percorso una trentina di chilometri, l’autocolonna giunse a Dogali, dove si fermò per il tempo necessario a fare rifornimento di acqua al fiume. Poi, riprese lentamente la marcia, perché il viaggio era ancora lungo: per salire sull’altopiano, infatti, era necessario superare un dislivello di circa 2.400 metri e, per questo motivo, il tracciato della strada era caratterizzato da ampi tornanti.

La natura cambiava aspetto con l’aumentare dell’altitudine: salendo, s’incontravano piante lussureggianti e alberi di vario tipo, che non potevano crescere al livello del mare.

Gli autoveicoli della divisione 3 Gennaio, carichi di camicie nere, procedevano in colonna a velocità ridotta. A volte, questi incrociavano camion per il trasporto merci, che viaggiavano a velocità eccessiva, compiendo manovre spericolate, con il rischio di precipitare nei burroni. Nei punti più aspri della strada vecchia, ogni tanto i passeggeri dovevano scendere dalle vetture per spingerle in salita o per sollevarle quando le ruote erano impantanate.

Dopo diverse ore di viaggio, la Divisione giunse al villaggio di Ghinda, una località malarica sede del comando di tappa, formato da una cinquantina di capanne di indigeni, da qualche casa in muratura e da molti baracconi militari. Qui i soldati furono ospitati per la notte, dopo avere consumato un magrissimo pasto: una scatoletta di carne ogni due soldati.

Lungo il percorso, gli italiani incontrarono tante specie di uccelli, di dimensioni mai viste prima, con piume multicolori, che andavano dal rosso al verde, dall’azzurro al turchino. Incuranti della presenza dei soldati, nei campi, immobili, sostavano grossi trampolieri e passeracei di ogni tipo. Si incontravano scimmie di piccola e di grossa taglia, che saltellavano qua e là tra gli alberi. Un vero paradiso terrestre, che si era mantenuto intatto, perché gli indigeni non praticavano la caccia e le specie animali non rischiavano l’estinzione.

 ***

Tra il 12 e il 15 novembre del ’35, l’intera Divisione fu trasferita sull’altopiano, a Decameré. Il viaggio sui camion, diviso in varie tappe, con soste notturne in tenda, era stato certamente lungo e faticoso. Tuttavia se confrontato con quello compiuto quarant’anni prima, a piedi, da altri italiani  peggio equipaggiati, su strade che erano poco più che sentieri, poteva sembrare una semplice scampagnata.

I militi, appena giunti a destinazione, furono ospitati in tende da campo. Dopo il rancio andarono tutti a dormire, ma pochi riuscirono nell’intento: il caldo, la sete, l’emozione di trovarsi in zona di guerra, i latrati delle iene, i lamenti degli animali della boscaglia e le grida malauguranti degli uccelli notturni avrebbero disturbato anche il sonno della morte!

Per le truppe non c’erano baracche. Molto costose perché costruite in legno, esse erano destinate agli ospedali, alle infermerie, ai magazzini viveri e ad alloggiare i comandi delle grandi unità. Le condizioni climatiche sull’altopiano non erano gradevoli. L’aria della notte era rigida e umida. Per non sentire freddo ci sarebbero volute coperte pesanti, ma non ce n’erano a sufficienza e i soldati erano costretti a dormire con il pastrano indosso. A Massaua, a meno di cento chilometri di distanza, di notte faceva caldo e si dormiva meglio all’aperto che al chiuso, senza neppure la necessità di coprirsi.

Come avrà dormito Eugenio, in quella prima notte africana sdraiato sulla dura terra, senza un materassino, al riparo di una tenda tipo Roma con altri cinque commilitoni? Si può immaginare!

Il clima era tropicale e la stagione delle piogge durava circa tre mesi, da metà giugno a metà settembre. Le “grandi piogge” erano grandi davvero, ma duravano al massimo sei ore. Durante la giornata, negli intervalli senza pioggia, era possibile svolgere alcuni lavori. A novembre, ormai lontani dalla stagione delle piogge, nonostante l’avvicinarsi dell’inverno, faceva ancora piuttosto caldo: alle ore 14, mediamente, il termometro segnava una temperatura di 27-28 gradi centigradi all’ombra e di 35-37 al sole. In mancanza delle piogge, la temperatura saliva perché il terreno asciutto accumulava grandi quantità di calore, che restituiva all’ambiente circostante, sia durante il giorno, sommandosi a quello diretto del sole, sia durante la notte.

Dall’alba al tramonto era obbligatorio indossare il casco coloniale, per evitare pericolose scottature e insolazioni. Dalle dieci alle diciassette in tenda non si poteva stare, perché si soffocava dal caldo: era consigliabile ripararsi nelle zone d’ombra del campo, possibilmente ventilate. Al tormento del caldo si aggiungeva l’insidiosità delle mosche che sembravano un castigo di Dio: si posavano sulle labbra, sugli occhi e sul naso delle persone, e per scacciarle era necessario prenderle con le dita.

Vivere sull’altopiano era molto faticoso per chi non vi era abituato; lo sforzo richiedeva buone condizioni di salute, cuore e polmoni robusti. Ai lavoratori addetti alle costruzioni stradali venivano somministrati pasti adeguati: il caffè al mattino e due ranci ogni giorno. Molti di loro si ammalarono ugualmente e furono rimpatriati, perché le coperte in dotazione non erano adatte a garantire una sufficiente protezione dal freddo notturno nelle tende.

Recapito di Eugenio comunicato alla famiglia per la corrispondenza:

«C. N. Usai Eugenio, IV divisione CC. NN. 3 Gennaio, IV Battaglione Misto Complemento, 101^ Compagnia, 3° Plotone, 9^ Squadra, Africa Orientale – Eritrea».

Il 16 novembre, Eugenio, da poco sull’altopiano, festeggiò il suo ventiseiesimo compleanno, il primo dei due trascorsi in Africa. Quel giorno, fin dal mattino, squadriglie in formazione ed aeroplani isolati solcarono ininterrottamente il cielo, segno di un’imminente grande avanzata delle armate italiane. Gli aviatori sfoggiavano la loro abilità volando a bassa quota e salutando con la mano dai finestrini, come per infondere coraggio alle camicie nere appena giunte sull’altopiano, in attesa di scontrarsi con il nemico. L’aviazione italiana era padrona assoluta del cielo, poteva spiare indisturbata le mosse degli abissini e colpire con precisione, perché il nemico non possedeva alcuna forza aerea.

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Tra i militari appena giunti in Eritrea circolavano notizie contraddittorie sull’andamento delle ostilità, sulle prodezze dei soldati italiani, delle camicie nere e dell’aviazione. Si parlava ripetutamente di atti di sottomissione compiuti da numerosi dignitari etiopi, segno che una parte degli indigeni considerava gli italiani i benvenuti in quelle terre e non nutriva odio verso i colonizzatori, visti come portatori di una civiltà più evoluta. Era vero che all’inizio delle ostilità molti capi villaggio, vestiti con sgargianti costumi rossi, adornati di collari e stole arabescate, fecero atto di sottomissione alle autorità italiane, seguiti da centinaia di indigeni che deponevano le loro armi ai piedi degli invasori. Ma era altrettanto vero che la maggior parte dei capi abissini combatteva strenuamente contro gli italiani e non aveva alcuna intenzione di arrendersi o, peggio ancora, di sottomettersi al duce del fascismo.

I soldati abissini, male armati, possedevano vecchi fucili ad un solo colpo: la canna aveva un diametro interno di circa un centimetro e mezzo, e le grosse cartucce avevano pallottole di piombo. Gli stessi resistenti indigeni preparavano le munizioni che utilizzavano nei combattimenti: una volta che le avevano sparate, raccoglievano i bossoli da terra per poterli riutilizzare. I capi, invece, possedevano fucili moderni a cinque colpi, di fabbricazione inglese o cecoslovacca.

 

Antonio Usai

 

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