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L’avventura africana di Eugenio alla conquista dell’Impero (6)

[1] di Antonio Usai

Per la puntata precedente: leggi qui [2]

Il tricolore sventola di nuovo sul forte di Macallé

La mattina di quello stesso giorno, era giunta sul Colombo la notizia della conquista del forte di Macallé, da parte delle armate italiane. Altre operazioni militari, sul fronte della Somalia, si erano concluse con il pieno successo dalle truppe guidate dal Generale Graziani. Macallé era la capitale dell’Endertà, una regione nel Tigrai di Ras Sejum, nodo strategico di importanti linee di comunicazioni stradali.

Il bollettino di guerra informava che «il tricolore, ammainato a Macallè nel gennaio del 1896, dalle ore nove e trenta dell’8 novembre sventolava nuovamente sulle rovine del forte di Enda Jesus, dove il Tenente Colonnello Galliano, quarant’anni prima, l’aveva strenuamente difeso contro forze dieci volte superiori

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A bordo, i soldati reagirono alla notizia della conquista di Macallé con grande giubilo e il loro morale salì alle stelle, perché tutto faceva pensare a una rapida conclusione della guerra, alla conquista dell’Abissinia e a un rapido ritorno a casa delle truppe coloniali. I dodicimila italiani, che nel marzo 1896 caddero da eroi ad Adua, in una lotta impari contro un nemico in numero preponderante, erano già stati vendicati il 6 ottobre con l’entrata in quella città del II corpo d’armata italiano.

Massaua, la porta dell’Africa italiana

Di notte, il lavoro nel porto di Massaua era più intenso che di giorno. Durante il giorno, infatti, lavoravano gli indigeni e di notte gli italiani, perché i bianchi, a differenza dei neri, sopportavano a stento il caldo sole africano.

C’era un bisogno sempre crescente di scaricatori del porto per lo sbarco del materiale bellico e delle derrate alimentari provenienti dall’Italia al seguito delle truppe. A tale scopo, furono reclutate alcune migliaia di lavoratori portuali fra Genova, Savona, Livorno ed altri porti secondari: parecchi di loro, tuttavia, dovettero essere rimpatriati pochi giorni dopo l’arrivo in colonia, per scarsa resistenza al lavoro. Molto meglio si comportarono i lavoratori portuali yemeniti che, numerosi, giungevano a Massaua in cerca di lavoro, trasportati da piccole imbarcazioni, i sambuchi.

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Di fronte ai negozi di generi alimentari e ai pochi bar, c’era sempre una ressa di soldati italiani: tutti cercavano di comprare qualcosa da mangiare e da bere perché il cibo scarseggiava anche per loro. In città c’era un solo ristorante, piuttosto scadente, e pochi bar sporchi, spesso sprovvisti di bevande fresche. Il quartiere dei bianchi aveva un aspetto sicuramente migliore: c’erano belle costruzioni moderne abitate dai coloni, in stile orientale, con logge graziose, e le sedi di alcune ditte d’importazione ed esportazione di prodotti coloniali. Non mancavano, inoltre, bei negozi di prodotti coloniali gestiti da italiani, egiziani e greci.

Gli impiegati che lavoravano agli sportelli dell’ufficio postale erano tutti di colore, piuttosto abili nel loro lavoro: parlavano e scrivevano correttamente in italiano.

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L’attività nella colonia era molto intensa: sulla strada che unisce Massaua con Asmara, la capitale dell’Eritrea, il traffico di camion ed altri autoveicoli era piuttosto sostenuto; le saline, ubicate nella periferia della città, erano ricoperte da immense distese di sale in attesa di essere raffinato.

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Le capanne degli indigeni erano costruite con rami disposti a forma conica o quadrangolare, con pareti fatte di foglie, pezzi di tavole, brandelli di lamiera o vimini intrecciati. Quasi tutte queste abitazioni erano prive di pareti divisorie interne: le persone ci vivevano sdraiate per terra, fumando e bevendo vino di mele, oppure tè, e trascorrendo tutta la giornata in ozio quasi assoluto. Le donne lavoravano molto più degli uomini. Le madri si portavano sempre i piccoli legati alla schiena e non si lamentavano mai della loro misera condizione di vita.

Il quartiere indigeno di Massaua era composto da un centinaio di capanne, i tucul. Lungo una via abbastanza larga si trovavano i negozi degli indigeni: erano abbastanza puliti e dotati di molti generi di uso comune anche tra i bianchi, quali il sapone, lo zucchero, la pasta e il riso, conseguenza della presenza italiana.

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Intorno a queste poverissime dimore si sentiva un odore caratteristico, piuttosto sgradevole per l’olfatto degli italiani. Si trattava probabilmente di droghe molto in uso tra la popolazione locale: i cibi, le bevande, gli indumenti e i capelli, erano completamente impregnati di quell’odore nauseabondo!

Gli uomini erano taciturni e remissivi, specie nei confronti dei bianchi. Le donne portavano una caratteristica pettinatura fatta di tante piccole trecce di capelli neri, lucenti, ricci, che sulla nuca si scioglievano e andavano a ricoprire il lungo collo con molta grazia.

Le impressioni di Eugenio, al suo primo impatto con l’arretratezza e la miseria degli indigeni, furono di stupore e commiserazione.

 

Antonio Usai

[L’avventura africana di Eugenio alla conquista dell’Impero (6) – Continua]