Lontano da Ponza

L’avventura africana di Eugenio alla conquista dell’Impero (5)

di Antonio Usai

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La sosta a Porto Said

La mattina del quarto giorno di navigazione, mercoledì 6 novembre, l’approssimarsi della costa africana fu annunciata dai gabbiani che, numerosi, iniziarono a girare intorno alla nave e a svolazzare sulla sua scia in cerca di cibo. La vista di quei volatili rese euforici i soldati: presto sarebbero finite le giornate noiose e finalmente avrebbero potuto impartire una sonora lezione agli abissini.

Nella tarda mattinata fu possibile scorgere chiaramente la costa egiziana. Qualche ora dopo, la nave entrò a Porto Said. I soldati, in coperta, erano affascinati dalla città: centinaia di uomini, come grappoli umani, arrampicati sulle sartie, sulle coffe, sui paranchi e sui bighi, ammiravano il paesaggio egiziano, le palme, la gente con i turbanti.

La rada non era molto ampia e il porto poteva ospitare solo poche navi. Quel giorno, in banchina c’erano una nave da guerra inglese e una francese. Nessun segno di saluto fu scambiato con la nave britannica. Passando a prua del piroscafo francese, invece, i marinai transalpini schierati sul ponte scattarono sugli attenti. Gli italiani fecero altrettanto. Ciò confermava i cattivi rapporti dell’Italia con la Gran Bretagna e le buone relazioni con la Francia.

La nave sostò in porto per circa quattro ore. Per motivi di sicurezza, a nessuno fu permesso di scendere a terra. La città era bellissima: strade dritte e asfaltate conducevano al porto; sul lungomare si scorgevano graziose palazzine circondate da giardini lussureggianti, alberghi e ristoranti in moderni palazzi in stile europeo, molto eleganti e lussuosi. Il clima mite garantiva la primavera tutto l’anno e conferiva alla natura un aspetto paradisiaco. Sulla spiaggia, situata sul lato occidentale del porto, risaltavano elegantissimi stabilimenti balneari, con cabine dai colori vivaci e grandi ombrelloni conficcati nella sabbia.

Numerosi barchini si avvicinarono sotto il bordo della nave: gli egiziani vendevano cianfrusaglie e paccottiglie di poco conto, portasigarette di legno, fodere per cuscini, piccoli tappeti, cartoline della città, che ai soldati era vietato acquistare. Un’imbarcazione a remi, con a bordo alcuni italiani residenti a Porto Said, si avvicinò sventolando un vessillo tricolore. Pieni di fervore patriottico, più volte i nostri connazionali inneggiarono ai soldati, all’Italia, al duce e al Re.

L’attraversamento del canale di Suez

Levate le ancore intorno alle 17, il Colombo si diresse verso l’imbocco del Canale di Suez, seguito da numerose piccole imbarcazioni. Ad un certo punto, per la presenza del canale, queste non poterono più proseguire e le persone a bordo trasbordarono su alcune automobili. Percorrendo la strada costiera, accompagnarono il piroscafo ancora per un tratto con le bandiere al vento.

Il canale si presentava come una grandiosa autostrada con gli argini in muratura. Sulla sponda africana si scorgeva la linea ferroviaria e la strada asfaltata che congiungeva Porto Said a Suez e al Cairo. La sponda orientale, quella della penisola del Sinai, appariva nuda, come un’immensa spianata desertica, punteggiata, qua e là, dalle tende dei beduini e dai cammelli immobili sotto il sole cocente. Sul lato egiziano, in corrispondenza delle rare stazioni ferroviarie, sorgevano villaggi con casette piccole ma graziose, abitate da cittadini europei che lavoravano per la società delle ferrovie, come i marconisti delle stazioni radio.

Verso sera, la nave uscì dal canale arginato ed entrò in un grande stagno, il “lago amaro”: boe luminose, rosse a destra e verdi a sinistra, indicavano la rotta da seguire, per evitare l’incaglio sui bassi fondali. Ci vollero ancora tre ore di navigazione per giungere a Suez: la città appariva ampia e ben illuminata. Nel porto c’erano poche navi, tutte in attesa di attraversare il canale nell’altro senso. I due piloti egiziani, una volta completato il loro lavoro, passarono il comando agli ufficiali italiani, salutarono il comandante del piroscafo e scesero a terra con la pilotina che sventolava la bandiera egiziana insieme a quella britannica.

La navigazione proseguì ancora un poco all’interno del corridoio di transito, tra segnali luminosi sempre più distanziati tra loro. La quarta notte di viaggio trascorse con il piroscafo ancora nel canale, in navigazione nella parte più larga e profonda.

Il 7 novembre, dopo la consueta sveglia mattutina e la solita tazza di caffè nero, Eugenio fu attirato dalla vista delle numerose oasi che sorgevano in prossimità del canale.

Il Mar Rosso

Dopo qualche ora, il piroscafo si affacciò finalmente nel Mar Rosso: a dispetto del nome, quel tratto di mare è molto azzurro, certamente più di quanto non lo siano le acque del canale. Dopo la calma piatta assicurata dall’istmo artificiale, il piroscafo si mise a rollare leggermente, ma continuò la navigazione senza problemi scortato da alcuni delfini, che saltellavano festosi, a pochi metri di distanza dalla prua della nave. Il Mar Rosso è delimitato, a est, dalle coste della penisola del Sinai e, a ovest, da quelle dell’Egitto. Entrambe le coste sono formate da alte montagne rocciose di colore marrone tendente al rosso, senza un filo di vegetazione.

L’avvicinarsi del tropico del Cancro cominciava a farsi sentire: la temperatura e l’umidità dell’aria da un giorno all’altro diventarono insopportabili. Il caldo opprimente toglieva energia e volontà a quei giovani soldati: anche se si stava all’ombra, il sudore colava abbondante sul volto e inzuppava i vestiti. La vita a bordo, già scomoda fin dal principio, diventò sempre più pesante: i soldati trascorrevano il tempo oziando, giocando a carte e fumando in continuazione. Le sigarette Serraglio, Tre Stelle e Savoia erano le più amate dai soldati e costavano dieci centesimi l’una. Eugenio preferiva le Tre Stelle.

Alla sera il caldo si attenuava leggermente, ma l’aria restava calda e umida. Nelle cuccette non si riusciva a dormire per l’assoluta mancanza di aria, nonostante il moto della nave garantisse lo spostamento di grandi masse di aria. Il clima tropicale non piaceva molto agli italiani e meno che mai ad Eugenio. I passeggeri erano continuamente alla ricerca, spesso vana, di un angolino riparato dal sole, dell’acqua fresca e di qualche limone per calmare l’arsura.

Nel mare si scorgevano squali con lunghe pinne dorsali, che suscitavano un istintivo terrore; all’orizzonte, pennacchi di fumo rivelavano la presenza di piroscafi diretti verso nord, con destinazione porti del Mediterraneo. La giornata dell’otto novembre, la sesta a bordo del Colombo, si consumò tutta in navigazione nel Mar Rosso. 

L’arrivo nella colonia Eritrea

Il pomeriggio del 9 novembre, sabato, il Colombo gettò le ancore nella rada del porto di Massaua, nelle vicinanze di altre navi mercantili e da guerra italiane, anch’esse in attesa del permesso di entrata. Nell’euforia generale, il pensiero di Eugenio andò certamente alla madre che festeggiava il suo cinquantanovesimo compleanno.

L’indomani giunsero a destinazione anche gli altri due piroscafi provenienti da Napoli, il Saturnia e il Piemonte, così fu completato il trasferimento della 4^ divisione 3 Gennaio e della 5^ divisione 1° Febbraio in Eritrea.

Il porto di Massaua era piuttosto piccolo, sebbene ben riparato, e per questo motivo le navi erano obbligate ad attendere in rada il turno di sbarco: le banchine erano in grado di accogliere soltanto due navi alla volta. La città, vista dal mare, si presentava abbastanza bene, con il litorale punteggiato da villette a un solo piano, di costruzione recente, abitate da immigrati italiani.

A tarda sera la nave ebbe il permesso di ormeggiarsi alla banchina Regina Elena, a nord-est dell’isola di Massaua, a poca distanza dalla stazione marittima. Di fronte allo scalo marittimo sorgevano gli uffici delle società di navigazione, delle imprese di costruzione e di commercio italiane che operavano nella colonia.

Tra mezzanotte e le quattro del mattino di domenica 10 novembre, la divisione 3 Gennaio sbarcò sul suolo africano. Incolonnati e carichi come muli, i militi marciarono per tre chilometri prima di raggiungere il campo di aviazione della città, in attesa dei camion per il trasferimento verso l’interno. Le strade della città erano male illuminate e piuttosto affollate, sia di coloni bianchi sia di indigeni.

Quella prima marcia, durata soltanto un’ora, fu piuttosto faticosa perché sulla nave i soldati avevano fatto poco moto e la notte prima l’avevano trascorsa quasi insonni, a causa del caldo afoso.


Antonio Usai

[L’avventura africana di Eugenio alla conquista dell’Impero (5) – continua]

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