Racconti

L’avventura africana di Eugenio alla conquista dell’Impero (4)

di Antonio Usai

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La partenza da Napoli

Sulla banchina, prima di salire sulla nave, l’attesa durò a lungo. I soldati annoiati sentivano sempre più la stanchezza fisica, anche a causa della notte trascorsa insonne, bevendo e cantando nei locali della città, in compagnia di ragazze allegre, per scacciare il pensiero della guerra che li attendeva sull’altopiano etiopico.

Verso le undici del mattino giunse finalmente il turno d’imbarco della 101^ compagnia: Eugenio, c’è da immaginarselo, si mise il pesante zaino in spalla, imbracciò il moschetto ’91, prese dalla tasca il biglietto da viaggio che era stato consegnato a tutti i militari e si avviò, con passo deciso, verso lo stretto scalone della nave.

Sul biglietto era indicato il nome e cognome del passeggero, il numero della sezione della nave alla quale si era stati assegnati, il numero di letto, il numero di rancio di appartenenza e il punto di riunione in caso di abbandono nave. C’erano, inoltre, stampigliate le seguenti diciture: “E’ proibito entrare nelle imbarcazioni” e “Conservare il biglietto fino alla fine del viaggio”.

Una volta a bordo, i reparti furono divisi in squadre di dodici uomini, con un caposquadra, e condotti nelle zone dormitorio per prendere possesso delle cuccette. Il Colombo era un bel piroscafo ma, per il sovraffollamento, la vita a bordo non era per niente confortevole. Nei dormitori gli spazi erano molto angusti, si stava appena stesi sulla brandina. La nave era stracarica e non si poteva passeggiare neppure sui ponti esterni. C’era ressa in ogni angolo e i soldati spesso assumevano comportamenti incivili. Alcune zone furono ridotte ad un immondezzaio e, ovunque, regnava il disordine e la confusione.

L’ora fissata per la partenza era ormai passata, ma la nave non si decideva a partire: le operazioni di imbarco andavano per le lunghe. I soldati già a bordo, nell’attesa del fischio di partenza, si arrampicavano sui ponti più alti per godersi lo spettacolo della gente che stazionava sulla banchina, per un ultimo saluto ad una persona cara.

Eugenio si mise in posa con alcuni suoi conterranei per una foto ricordo che poi avrebbe spedito alla madre dall’Africa. Da terra, mamme, padri, mogli, fidanzate e bambini avevano gli occhi rossi, piangevano di commozione e salutavano senza sosta. Dalla nave, in tanti si sbracciavano per rispondere agli amici oppure ai parenti. Per lui non c’era nessuno ad augurargli il buon viaggio, ma nel cuore sentiva forte il conforto dell’affetto dei familiari lontani.

* * *

Era da poco passato mezzogiorno quando si conclusero finalmente le operazioni d’imbarco. Il sole era a perpendicolo e il porto e la città, gremiti di folla, somigliavano ad un formicaio operoso.

Il fischio della sirena di bordo ordinò ai marinai di togliere gli ormeggi e di salpare le ancore. La gente in banchina si zittì per un attimo e poi esplose in un boato: migliaia di persone cominciarono ad applaudire freneticamente, mentre la banda militare intonava un inno patriottico. Quel saluto corale ben rappresentava l’augurio di tutto il popolo italiano ai valorosi soldati in partenza per l’Africa. I soldati risposero agitando fazzoletti e berretti. Tutti sentivano la solennità del momento e, con animo commosso, volgevano un pensiero affettuoso e di riconoscenza alla propria famiglia, alla Patria, al duce e al Re.

E intanto il Colombo con Eugenio a bordo si staccava dalla banchina. Il Piemonte aveva appena ultimato l’imbarco dei duemiladuecento legionari della divisione 1° Febbraio, mentre il Saturnia proseguiva nelle operazioni d’imbarco dei restanti quattromilacinquecento militi della Divisione 3 Gennaio che non avevano trovato posto sul Colombo. Prima del tramonto, tutti i piroscafi avrebbero lasciato Napoli con destinazione Massaua.

Lasciato il golfo, il Colombo si diresse a velocità sostenuta verso lo stretto di Messina: la città di Napoli si allontanava sempre di più e il Vesuvio salutava i soldati con un pennacchio di fumo misto a bagliori rossastri.

Alle 20 fu distribuito il primo rancio a bordo, molto gradito dai soldati: pasta con sugo, carne e vino. Dopo cena i passeggeri andarono alla scoperta della nave e a visitare i ponti superiori, destinati agli ufficiali. Alle 22, stanchi della lunghissima giornata, i militari erano già tutti in cuccetta, a dormire profondamente e a sognare la verde Africa.

Il viaggio in nave e la vita di bordo

La prima notte, con la stanchezza del viaggio e dei divertimenti della vigilia, Eugenio dormì profondamente. Il primo risveglio sul piroscafo avvenne all’alba di lunedì 4 novembre, festa nazionale, XVII anniversario della vittoria dell’Italia contro l’Austria. Dopo aver riassettato la branda, per prima cosa andò a cercarsi una tazza di caffè nero per rimettersi in sesto.

Alla Messa, officiata sul ponte alle ore 10 dal cappellano militare, cui partecipò presumibilmente anche Eugenio, che non se ne perdeva mai una, seguì la commemorazione solenne della Vittoria: gli strumenti della banda musicale della Milizia intonarono la marcia reale e l’inno del Piave e, in chiusura, un picchetto di ufficiali e di camicie nere rese onore ai caduti di tutte le guerre. Dopo le marce militari, la tromba suonò il silenzio fuori ordinanza e una corona di alloro, decorata da fascia tricolore, fu lasciata cadere in mare da due militari. La cerimonia terminò con un vibrante saluto al duce e al Re, da parte di tutti i presenti.

Terminata la messa, in molti si trattennero sul ponte per osservare l’isola di Stromboli: il vulcano era senza pennacchio e si distinguevano chiaramente le piccole case bianche dei pescatori siciliani.

Il mare si era mantenuto sempre calmo fino all’approssimarsi della Sicilia e la navigazione proseguì ancora a lungo in condizioni ideali. Di lì a poco, il Colombo incrociò un piroscafo non meglio identificato di ritorno dall’Africa Orientale, con pochi passeggeri a bordo. Suonarono le sirene delle due navi e i soldati, ammassati sui ponti superiori, si misero a sventolare berretti e fazzoletti in segno di saluto. Più tardi, altre navi da carico, forse straniere, passarono poco distanti, ma non si ripeterono quei segni di giubilo.

Si avvicinò intanto il momento del passaggio dello stretto di Messina. La costa calabra apparve rocciosa, con tratti a strapiombo sul mare; Palmi e Villa San Giovanni, le città calabresi sullo stretto, apparvero prima di Reggio. Sulla sponda siciliana si scorgeva l’imboccatura del porto e il faro di Messina, città molto estesa sulla costa, con più di centomila abitanti, solo parzialmente ricostruita dopo il violento terremoto-maremoto del 28 dicembre del 1908. Numerosi ferry-boats facevano la spola tra Calabria e Sicilia: il Colombo dovette prestare molta attenzione per non entrare in collisione con quei battelli, che gli tagliavano la strada a velocità sostenuta.

Oltre lo stretto, il piroscafo si trovò subito nel mare Ionio, con a dritta un paesaggio molto gradevole, con la costa sicula frastagliata e cosparsa di casette bianche e pulite. Superato Capo Passero, in breve tempo, anche l’ultimo lembo d’Italia scomparve all’orizzonte.

In mare aperto si levò un forte vento di scirocco. In cielo, nubi nerissime minacciavano il temporale e, dopo poco, cominciò a piovere a catinelle. Lampi dai sinistri bagliori squarciarono il cielo, le onde divennero più impetuose e la nave si mise a rollare notevolmente. E così continuò per tutta la sera e non furono pochi i passeggeri che soffrirono il mal di mare. Eugenio avvertì una nausea fastidiosa, accentuata dal fumo acre dei motori che avvolgeva i ponti della nave, e ai primi rollii della nave si rifugiò nel dormitorio, rimanendo immobile sulla brandina, in attesa del bel tempo.

* * *

A bordo non era facile curare l’igiene personale: quando si riusciva a fare una doccia, poiché si usava acqua di mare per lavarsi, era inutile adoperare il sapone, tanto non avrebbe fatto schiuma. I risultati, perciò, non erano mai quelli desiderati e il cattivo odore si diffondeva per tutta la nave.

A prelevare il rancio per l’intera squadra si andava a turno e certamente, qualche volta, sarà capitato anche ad Eugenio. Gli incaricati si mettevano in fila, di fronte alla cucina, e attendevano in coda anche delle ore. Per ridurre un pochino l’attesa, conveniva mettersi in fila molto prima che iniziasse la distribuzione effettiva del rancio.

Passata la seconda notte in mare aperto, all’alba di martedì 5 novembre, il sole spuntò a poppavia in un cielo azzurro come il mare. Verso le 11 fu avvistata all’orizzonte Creta, ma presto l’isola greca scomparve nella foschia.

La sera, dopo il tramonto, in genere il tempo peggiorava: a volte, raffiche di vento e di pioggia investivano la nave e la facevano torcere come un serpente. In questi casi, i più audaci se ne stavano immobili, a poppa o a prua, ad osservare il mare in tempesta. Quelli che non avevano dimestichezza con il mare, invece, si ritiravano in buon ordine in cuccetta.

La vita di bordo, in generale, era piuttosto monotona e stressante, per il gran numero di passeggeri, per la ristrettezza degli spazi a disposizione e per lo scarso senso civico di molti. I soldati si annoiavano e trascorrevano la giornata vagando, senza meta, da poppa a prua e da un ponte all’altro. A volte, si avvicinavano ai settori della nave riservati agli ufficiali per ascoltare la musica di un’orchestrina ma, spesso, ne venivano allontanati in malo modo.

Scarseggiava l’acqua da bere e il piccolo bar a poppa, quando apriva, era subito preso d’assalto dagli avventori. A volte, dopo lunghe ore di coda, giunti al bancone, i soldati si sentivano rispondere che non c’era più nulla da bere o da mangiare.

Tutti erano stati informati che a Porto Said la posta del Colombo sarebbe stata trasbordata su un altro piroscafo di ritorno in Italia. Nei giorni precedenti, dalla stazione telegrafica di bordo, alcuni militari avevano potuto trasmettere marconigrammi alle famiglie. Eugenio scrisse anche una lettera alla madre, per tranquillizzarla sul suo stato di salute, sul buon andamento del viaggio e sul suo morale.

Sulla nave, qua e là, si formavano capannelli di soldati che conversavano animatamente sui fatti del momento. Spesse volte, qualcuno parlava del duce con grande ammirazione, nella convinzione che, una volta conquistata l’Abissinia, Mussolini l’avrebbe trasformata in un paradiso terrestre! In pochi anni l’Italia si sarebbe arricchita con lo sfruttamento delle miniere di carbone, di oro e di platino; con il petrolio e con le piante di gomma. Eugenio, dato il suo carattere riservato, non interveniva mai in quelle discussioni. Preferiva restare in disparte oppure, quando i toni salivano, si allontanava e si dirigeva verso poppa, dagli amici sardi, a fumare ed ascoltare storie e canti della sua regione.

Un pomeriggio, il comandante organizzò un’esercitazione di abbandono nave, secondo le procedure stabilite dalle norme internazionali sulla salvaguardia della vita umana in mare dell’epoca. Fu simulata un’emergenza grave e, al suono di sei lunghi fischi di sirena, tutti i passeggeri, dopo avere indossato i giubbotti di salvataggio, si radunarono ordinatamente sui ponti, nei punti di raccolta indicati sui documenti di viaggio di ciascuno. Gli ufficiali della nave ispezionarono i punti di raccolta e passarono in rassegna i passeggeri schierati: controllarono la corretta posizione delle cinture e impartirono le istruzioni per un corretto ed ordinato abbandono della nave, in caso di effettivo pericolo.

 

Antonio Usai

[L’avventura africana di Eugenio alla conquista dell’Impero (4) – Continua]

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