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Ponza è un’isola (1)

di Gino Usai

Stavo riflettendo sulle parole pronunciate martedì scorso dal papa nel suo messaggio per la 46ma Giornata mondiale delle comunicazioni “Il silenzio è parte integrante della comunicazione e senza di esso non esistono parole dense di contenuto (…) Silenzio e parola sono due momenti della comunicazione che devono equilibrarsi” e pensavo di trarne frutto.

Poi ho letto su Ponza Racconta l’interessante articolo di Vincenzo Ambrosino intitolato “Montegrano, o del ‘familismo amorale’” (in cui si tratta il tema della mancanza di  “senso civico” a Ponza) e le altrettanto interessanti osservazioni di Silverio Lamonica e ho rotto il silenzio. Silverio mi  invita ad entrare nella discussione. Il tema è scottante e complesso e per tentare di trattarlo dovrò necessariamente essere lungo e partire da lontano, abusando ancora una volta della pazienza dei  lettori, ai quali  chiedo scusa fin da ora.

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Credo proprio che i popoli siano il frutto di una storia e di un territorio.

Non si può dimenticare che Ponza è stata ( e resta tuttavia, dico io!) un’isola, minuscola, sperduta nel vasto mar Tirreno, distantissima dalla costa continentale e da quella “civiltà”; non a caso scelta come luogo di espiazione nel corso dei secoli.

Sul finire del Settecento l’abate naturalista Alberto Fortis descrive nel modo seguente le nostre isole: “Palmarola, Ponza, Zannone, la Botte e Ventotene formano le sentinelle “perdute” del Golgo di Gaeta…saranno un giorno sopraffatte dal loro eterno nemico: il mare. All’ora del tramonto, le ombre di questi cinque mostri si rabbattono sulle onde, e si spargono la tristezza, il sospetto, la paura. Ognuno di esse piglia da lungi una forma strana, bizzarra, fantastica. Palmarola è un catriosso rabberciato, Ponza è un enorme coccodrillo in procinto di divorare un orso che è quell’apofisi dell’isola stessa chiamata la Gabbia; la Botte è l’”Uomo che ride”; Ventotene è una mostruosa rana rizzata sui piedi”.

L’apparire nel vasto mare delle nostre isole vulcaniche, spelacchiate di vegetazione e adornate di dirupi selvaggiamente franati, doveva certamente incutere al navigante paura e voglia di fuggirle. Ponza era un’isola selvaggia, aspra, non attraeva, piuttosto respingeva. Eravamo molto distanti dal gusto “borghese” del tardo Novecento che si apriva al consumismo, al turismo e all’abbattimento delle frontiere e di ogni tabu. Erano lontani da venire i tempi moderni che facevano dire ai novelli viaggiatori naturalisti come Folco Quilici, che Palmarola è “una delle terre emerse dal mare più belle del nostro pianeta”. Dichiarazione che tanto ha contribuito a rafforzare quella retorica sulle nostre isole che saggiamente Vincenzo Ambrosino, in una risposta data a Polina Ambrosino in questo stesso sito, biasima.

Quando Pasquale Mattej giunge a Ponza nel 1847 su un “piccolo naviglio” a vela, pilotato da padron Silverio, giunto ai piedi della Batteria Leopoldo viene colpito dalla rupe bianca del cimitero e suggestionato dall’insolito scenario  verga la seguente epigrafe “Un recinto di guerra e di sciagura/ Chiude una Chiesa  un Faro e una Tomba!/Ahi! della vita è questa la ventura…!

E’ la stessa scena che ispirò il pittore svizzero Arnold Boecklin (1827-1901)quando dipinse “L’Isola dei Morti”, il quadro preferito da Hitler, che adornava la parete del suo studio quando Molotov e Ribbentrop nell’agosto del 1939 firmarono il Patto scellerato, quasi a funesto presagio.

Mattej poi descrive nel modo seguente la  “terra emersa”  Palmarola: “Quelle coste apparivano per soprappiù inaccessibili, e più o meno scendenti a picco sul pelo delle acque, effetti patenti di alluvioni, per le quali tutto il terreno nella periferia dell’isola (…) si presenta solcato, scabro, avvallato, ed il ridosso de’ monti sfranato ed informato di grandi e neri macigni.

(…) Arido, infecondo il terreno, ovunque si accumula, non si allieta che di erbe parassite, frutici, boscaglie spontanee, e roveti. Ovunque colà è pur squallida apparenza di rupi stranamente configurate. Congerie sterminata di scuri ed orribili macigni rotolanti giù per i fianchi scoscesi fan barriera alle coste dal mare perennemente minate.”

Per avere una visione realistica di Palmarola non è necessario scomodare Folco Quilici, né la signora Fendi, basta leggere il puntuale e documentato resoconto che ne ha fatto Mimma Califano su questo sito: terra di lavoro e di sofferenza, altro che villeggiatura!

Fino a pochi anni fa Palmarola non era il “mito” turistico sbandierato oggi. Era un’isola duramente coltivata dai proprietari terrieri e un lido faticosamente raggiunto da pochi pescatori. Il resto della popolazione ignorava completamente quell’isola. Mia madre è morta a 88 anni senza aver mai messo piede a Palmarola. E così tantissimi ponzesi. I quali tenevano Palmarola nel cuore solo perché era l’isola del martirio e della sofferenza di S. Silverio.

Noi ponzesi amavamo Ponza mica perché qualcuno ci aveva detto che era bella, di bizzarra origine vulcanica, prezioso ambiente naturalistico di alto interesse comunitario da proteggere e tutelare, con i faraglioni più belli di quelli di Capri ecc. Noi Ponza l’amavamo perché era la nostra terra sperduta nel Tirreno, la nostra “Brevis insula”, come la definì nel suo prezioso saggio il nostro caro Giulio Vitiello. L’amavamo come si può amare una mamma, senza badare se era bella o brutta. Amavamo le sue primavere zeppe di uccelli frullanti e cinguettanti che finivano nelle trappole tese negli orti dalle nostre mamme e che rimpinguavano i nostri frugali pasti. Amavamo le sue estati, quando le famiglie intere raggiungevano festanti le assolate e pulitissime spiagge, non ancora occupate e sottratte dal libero mercato; amavamo i suoi autunni piovosi, la festa dei morti e l’attesa del Natale, avvolto di tepore religioso e dolce profumo di casa, che l’inverno ci portava col suo freddo e le sue tormente. Si attendeva con trepidazione la festa di S. Silverio a Le Forna, quella di S. Giuseppe a S. Maria e poi tutti a preparare i focaracci per il Venerdì Santo e a festeggiare la SantaPasqua, che splendeva di calce bianca e pulita come la neve; e poi a frotte a mangiare il profumato casatiello in campagna, per festeggiare il Pasquone, quando ancora non era stato sostituito dalla Sagra della Pro-Loco. Che gioia collettiva la preparazione della trionfale festa del Santo Patrono, piena di intensità religiosa, quando S. Silverio era solo dei ponzesi e non uno spot televisivo o un profano e irreligioso pacchetto turistico da metter sul mercato. E poi la festa della Madonna Assunta a Le Forna, quando bambini si raggiungeva quella lontana contrada a piedi, con i vestiti puliti della festa, e sui Petroni pizzicavamo l’uva nelle catene  pulite e coltivate, anticipando il tempo del detto popolare “A S. Anna se pizzica p’ogni vanna”.

Per tutto questo noi amavamo Ponza, la nostra mamma, prima che ci venisse scippata.

Dopo la descrizione di questo quadretto idilliaco, ma assolutamente reale in cui ogni ponzese di una certa età può riconoscersi, spero che a nessuno venga in mente di tacciarmi di  sterile nostalgia, di tradizionalismo, di retorica del buon selvaggio di rousseauiana memoria, per la semplice ragione che non sono queste le mie intenzioni. So bene infatti quanto dura fosse la vita a quel tempo per i lavoratori della miniera (mio padre, insieme a tanti altri operai, partiva di notte dalla casa del porto per raggiungere la miniera a Le Forna e dopo una dura giornata di pala e piccone, tornare nuovamente a casa, sul fare della sera, distrutto. Lo aspettavamo, noi figlioletti piccoli, per togliergli gli scarponi inzaccherati di fango, i calzettoni e infilargli i piedi dolenti nella bacinella d’acqua calda preparata da mamma); so quanto era dura la vita dei pescatori, dei marittimi, dei contadini, delle mamme. Non ho quindi nessun rimpianto per quell’epoca. Ma so anche che quella vita difficile era il tessuto connettivo di una società tenuta insieme da valori antichi, tramandati di padre in figlio, che aiutavano i ponzesi a sentirsi uniti e solidali.

Ora tutto questo non è più e le cose sono molto cambiate. In meglio, da un punto di vista della soddisfazione dei beni materiali; in peggio, se pensiamo ai valori e alla tenuta sociale venuta completamente meno. Possiamo dire con certezza che la nostra isola negli ultimi trent’anni ha conosciuto un consistente sviluppo, ma non ha fatto nessun progresso.

Resta il fatto che Ponza oggi è una realtà socio-economica difficilissima da vivere, sia d’estate che d’inverno, il cui livello “culturale” e morale ha raggiunto un punto che io definisco – con immensa tristezza nel cuore – di non ritorno.

(Continua)

Gino Usai [1]