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Naufragi di uomini

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di Sandro Russo

 

Passata l’onda di maggior impatto emotivo del naufragio della Costa Concordia, proviamo a raccogliere i fili sparsi di tutto quel che in questi giorni abbiamo letto in proposito; che avidamente abbiamo seguito, per la motivazione non secondaria di essere noi isolani, stanziali o acquisiti, molto coinvolti con il mare e con i naufragi.

Nella memoria della gente di Ponza rimane indelebile la tragedia del Santa Lucia, il ‘postale’ affondato il 24 luglio del ’43 ad opera di aereo-siluranti inglesi.

Sul tentativo di restituire un nome a tutte le vittime (66) e con i reperti restituiti dal mare, sull’isola si è fatto un Museo; come viste e riviste sono le riprese subacquee tra le lamiere arrugginite del relitto, su un fondale di 50 m.: leggi qui [2] e negli articoli correlati.

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In un’isola che vive di mare e sul mare, i ‘naviganti’ sono stati una parte importante della popolazione, fino ad anni da poco trascorsi; quindi come non partecipare emotivamente ad una tragedia del genere, in tutti i suoi risvolti: dalla parte dei naufraghi, dei sopravvissuti e anche degli attori implicati. Con la pietas a tutti dovuta, che non deve interferire con l’accertamento giudiziario delle responsabilità; perché “chi va per mare naviga, chi sta a terra giudica”, come si dice nel posti di mare e come si è letto anche sui giornali, in questi giorni.

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Anche a Ponza infine, abbiamo varie secche e scogli affioranti, forse ancora più insidiosi delle ‘Scole’ del Giglio, con molti precedenti di naufragio a poche centinaia di metri dalla costa. L’ultima nave finita sulle ‘Formiche’ di Ponza è dei primi di giugno u.s. (leggi qui [5])

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Ma a parte lo specifico isolano, l’immagine della nave reclinata sui bassi fondali del Giglio è destinata a rimanere a lungo nell’immaginario collettivo come, in diversi contesti, le immagini dell’attentato alle Torri Gemelle (11 sett. 2001), quelle dello Tsunami in Asia del 24 dicembre 2004 e di quello più recente del Giappone (marzo 2011).

E come il più emblematico e metaforico di tutti i naufragi: quello del Titanic del 15 aprile 1912 (1523 vittime dei 2223 inbarcati).

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Molto si è letto in questi giorni dei  correlati profondi del naufragio di una nave con la condizione umana, e di come un evento del genere scateni interesse ed emozioni al di là del fatto in sé. Tutti coloro che hanno seguito la vicenda si sono sentiti naufraghi nella notte; come tutti hanno sentito il peso della responsabilità  del comando e – al di là delle manifestazioni di cattivo gusto – vissuto dentro di sé il profondo dramma dei responsabili, scampati al naufragio, ma con il carico di una colpa non espiabile.

Il pensiero di molti sarà andato a quel capolavoro della letteratura marinara che è Lord Jim di Joseph Conrad (1900),

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“Lord Jim”: il romanzo di Joseph Conrad (1899-1900) e il film di Richard Brooks (1965)

Nel romanzo, Lord Jim è un primo ufficiale della marina inglese sottoposto ad un infamante processo per codardia ed abbandono di una nave di pellegrini diretta a La Mecca (il Patna), insieme al capitano e a due macchinisti,  perché creduta in procinto di affondare. Ma il Patna non affonda, e viene rimorchiata in porto. Il comandante del Patna fugge; Jim affronta il processo e gli viene revocato il brevetto di ufficiale. Tutta la seconda parte del romanzo tratta della vergogna e del tentativo di espiazione dell’uomo, responsabile della debolezza di un momento; e non basta la vita a riparare un atto così grave.

Si tratta di un grande romanzo, impropriamente etichettato come romanzo d’avventure per ragazzi, con una struttura narrativa complessa, ‘a scatole’ una dentro l’altra, in cui il lettore viene condotto con mano sicura di storia in storia, senza perdere il filo della narrazione. Nel film tratto dal romanzo Lord Jim ha il volto di Peter O’Toole, e come è avvenuto per Titanic, il film di James Cameron del 1997, ha incanalato l’immaginario visivo in modo irreversibile.

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Ma è l’ignoto, il mistero, quel che calamita l’attenzione di quanti hanno seguito con estrema partecipazione la vicenda del naufragio della Costa Concordia. Chi ha navigato conosce bene la sensazione che prende a volte (non troppo spesso per fortuna) – specie nei pensieri tra veglia e sonno, specie se si dorme al di sotto della linea di galleggiamento della nave – quando confusamente si avverte che tra sé e il buio, l’ignoto, c’è solo una sottile barriera di legno (o di metallo); così facile da essere disintegrata, come tutte le sicurezze umane.

Sensazioni – legate al navigare ‘in una dimensione umana’ – che probabilmente non avvertono gli ospiti di una città galleggiante come quella di cui stiamo parlando. Non a caso molti commentatori in questi giorni si sono soffermati su una particolare forma di hybris, la superbia umana che osa sfidare la natura con creazioni che poco hanno in comune con il talento dell’uomo di avvicinarsi al mare con rispetto e  conoscenza profonda. Consapevolezza che per generazioni ha guidato i gesti e le vicende di quanti al mare hanno dedicato il loro sapere e, a volte, la loro vita.

 

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