Aneddoti

“Pazziell’ ’i criature” e altro… (1)

di Pasquale Scarpati

Nel pericolo io so dove rifugiarmi: zia Malvina e nonna Civitella mi accolgono sempre molto volentieri. Nonna è alta e slanciata, porta sempre i capelli annodati con la cipolla, ama cospargersi abbondantemente di borotalco perché “le vecchie devono essere sempre profumate”.

Durante le giornate tempestose mi racconta dei quatti miscredenti che erano andati a  finire in un pozzo giù al Bagno Vecchio ed erano stati salvati da un vecchio dalla barba bianca, apparso all’improvviso. Lo stesso vecchio aveva salvato un veliero durante un furioso fortunale ma aveva punito immediatamente, con la morte, un uomo che, affacciatosi al balcone di casa sua sulla Ponta ’ianca, mentre passava la processione del Santo, aveva irriso quell’usanza di portare in corteo “un tocco di legno”.

Nonna asserisce di aver visto, alla fine della seconda guerra mondiale, mentre diceva le “orazioni” stando alla piccola finestra della cucina, delle fiammelle venire dal mare e nella semioscurità un’ombra fermarsi all’incrocio tra le scalette che portano alla Dragonara e corso Carlo Pisacane, proprio nei pressi del portone di casa mia, e poi dileguarsi all’improvviso dopo aver rivolto lo sguardo per lungo tempo verso la finestrella. Erano evidentemente una risposta alle orazioni recitate per impetrare che il figlio più piccolo, zio Peppe, tornasse sano e salvo dalla prigionia.

Si sussurra che dint ‘o camerone si odono sinistri scricchiolii, porte che sbattono e si vedono scarpe che si muovono. Si vocifera che persino ‘u parricchiano si sia recato lì, orando e aspergendo le pareti con l’acqua benedetta.

Mi rannicchio nel lettino riscaldato da una borsa d’acqua calda, accanto al grande letto matrimoniale di nonna, mentre il levante ulula e si insinua in tutte le fessure dei vecchi infissi, vanamente ostacolato da lunghe salsicce di stoffa riempite di sabbia. Poi ascolto il respiro tranquillo di nonna e di zia e mi addormento. Storie del passato, di santi e di morti, di fantasmi, di zit’ e murticielli.

Zia, quando non mi racconta le favole dell’orco, del gatto con gli stivali e altre, mi lascia fare tutto quello che voglio: leggere i vietatissimi giornaletti Monello ed Intrepido, le storie di Bufalo Bill. Mio padre non deve sapere e la scuola non approva: non appena sento i suoi passi nascondo tutto.

D’estate, nel pomeriggio assolato, siccome non ho voglia di dormire, zia stende un lenzuolo sul pavimento ed io leggo tranquillo i giornaletti perché è sicuro che papà non viene, e nello stesso tempo non penso più di uscire con gli amici nella controra. Mi lascia giocare con tutto (ho ritagliato anche un mio cantuccio segreto unendo le due grandi ante di due armadi a muro adiacenti): con la vecchia macchina da cucire Singer, con i tegami (mi ha insegnato a cucinare la frittatina; dopo aver bollito le patate, me le fa  schiacciare in un panno così da fare il puré che condisce solo con il sale), con l’orologio-sveglia, bello, grande (che io, ovviamente, apro per vedere come funziona e poi non so più rimontare), con i magici “frulli, frulli”… all’improvviso una fiammata: ha preso fuoco la coperta del letto di nonna e così è rimasta bruciacchiata la spalliera di legno! Zia, tra l’altro, mi ha insegnato a far passare tra i fori di un bottone un filo di cotone, ad annodarne le estremità e quindi ad  avvolgerlo più e più volte . Mi diverto ad allungare e ad accorciare il filo per far girare velocemente il bottone. Mi piace sentire le vibrazioni ed anche quel leggero sibilo ma, nello stesso tempo, nel tirare, devo dosare le forze affinché il cotone, con mio grande disappunto, non si spezzi. In quel cortile, lì in alto, mi sento a mio agio: sono coccolato e non solo da mia zia, ma anche dalle vicine.

Filomena, minuta e sveglia, ha per me un occhio particolare e anch’io le voglio bene. La madre, Rosa ‘i Santella, è accanita giocatrice della tombola: fa incetta di cartelle e vuole sempre vincere; è molto religiosa, dice il Rosario e canta le novene dell’Assunta durante le sere d’agosto. La sua voce, insieme con quelle delle vicine, si spande nei dintorni.

Il giorno dell’Assunta, la mattina presto, prima del sorgere del sole, ci si avvia a piedi alle Forna e si ritorna dopo la processione. Io sono più fortunato perché posso partire da casa di nonna Tumm’tella ai Conti. 
Rosa e ’Ndunetta ci perseguitano: sbraitano, strillano affacciandosi dall’alto della curteglia; inveiscono contro di noi minacciando punizioni e rappresaglie perché osiamo profanare i lunghi silenzi dei pomeriggi assolati. Ma noi, come dice Catullo: “Rumoresque senum severiorum – Omnes unius aestimemus assis…” (consideriamo i rimbrotti dei vecchi brontoloni – tutti come un solo asse! (moneta romana di scarso valore)…

Come dire …Non ce ne importa nulla, anzi…

 ***

’Ndunetta abita dietro l’angolo della curteglia con il marito Pataccone: un brav’uomo, ha una falegnameria sulla Via Nuova, quella che porta a Chiaia di Luna. La figlia di Pataccone, Liberina, è molto amica di zia Malvina, ambedue non sposate.

La falegnameria sta nei pressi della casa di zia Rosinella e zio Gaetano. A zio Gaetano basta un piatto di pasta asciutta per essere contento e poi va a riposare beatamente in un angoletto. Qualche volta mi porta con sé ’ncopp’u’vuzz’. Quando ci troviamo nei pressi di Zannone, al suo acuto fischio vedo i mufloni muoversi lungo le pareti scoscese. È  sempre lui che mi porta, a cavalcioni, per gli impervi sentieri di Palmarola. Ha due figlie: Brigida e Rita. La prima è più accondiscendente nei miei confronti, la seconda mi odia, ricambiata, perché lei è patita per le pulizie di casa, io sono ‘patito’ per la confusione di casa. Cosicché, quando mi vede, ha un diavolo per capello. Ma io non me ne curo perché, dopo aver salutato zia, vado difilato dai vicini di casa: Dumminico Zecca e la sua famiglia. Lì, stranamente, quando mi invitano a pranzo o a cena, mangio tutto, anche ciò che, di norma, a casa mia rifiuto. Dumminico è fabbro e ha l’officina all’uscita d’u’ ‘ruttone ’i S. Antonio. Spesso, nell’odore acre del ferro, mi fermo a vedere quel fuoco che si riaccende dopo che lui ha fatto girare velocemente, quasi senza sforzo, una manovella che produce, nel vortice, uno stridio. Ma io a casa sua vado volentieri per altri motivi: Luigino, mio grande amico e la sorella Luciettina.

La falegnameria di Pataccone è sempre  piena di polvere. Un lungo tavolo di legno, bucherellato, con i morsetti in legno, chiodi, martelli, qualche chianozza e qualche sega; qualcuno va anche per farsi regalare la pampuglia o la segatura che si usa, tra l’altro, per asciugare il pavimento di casa unto da macchie d’olio. Salvatore, questo è il suo nome, mi è simpatico sia perché cerca sempre di accontentarmi in tutto ciò che gli chiedo (anche all’insaputa di mio padre), sia perché suona lo strumento più grande e buffo della banda musicale.

Il silenzio delle strade, qualche volta, viene gioiosamente infranto dalle note della banda che cammina speditamente a tempo di musica. Sul fare della sera, per tutto il periodo delle novene di S. Silverio, s’incammina verso la chiesa partendo dall’inizio di corso Carlo Pisacane, poi sosta sul piazzale, in attesa che finisca la Messa. La banda non soffre di solitudine: il suono dei clarini, delle trombe è accompagnato anche dallo stuolo di noi bambini che camminiamo ai  lati e soprattutto davanti. Non ci piace seguirla perché il canto viene attutito dagli stantuffi dei bassi, dei bombardini, dal martellare continuo della grancassa e dal rumore dei piatti; per cui se qualche volta ci capita di non stare al passo o di raggiungerla in ritardo, zigzaghiamo per andare ad occupare la… prima fila. Quasi saltelliamo a suon di musica e andiamo avanti come cagnolini che precedono il padrone, ma ogni tanto ci voltiamo indietro come per avere la certezza della sua presenza. La banda infonde allegria e non importa se ci sveglia presto la mattina della festa di S. Silverio con la diana. Quando, prima della festa di S. Giuseppe, vaga su per i Conti, viene accolta in molte case e ai  musicanti  affaticati vengono offerte prelibatezze. Qualche volta, però, la musica si fa lamento, le note si allungano, vagano tristemente nell’aria. Sento adulti che abbassano la voce e porte dei negozi che si chiudono: un corteo funebre attraversa lentamente la strada, forse il dolore dei congiunti viene mitigato da quello delle note.

Soltanto un uomo mi incute paura: Franco Feola. È alto, la barba ispida (penso: ma Giacomino il barbiere non va mai a casa sua?) e soprattutto ha una palla sotto il mento, giù nella gola. Penso che ciò sia dovuto al fatto che fiuta e mastica tabacco. Il suo cane Jack  spesso cerca di entrare a casa mia, ma sistematicamente viene respinto da mia madre che non ama gli animali, sopporta solo un gatto perché deve acchiappare i topi che pullulano giù nello scantinato dove si arriva tramite o’ scalandrone e dove c’è un vecchio forno, prospiciente il mare prima della costruzione della banchina nuova. Mi hanno detto che Franco Feola è stato il primo proprietario della centrale che eroga l’energia elettrica (‘a luce”) solo per poche ore al giorno e solo fino a Santa Maria. La moglie Filomena parla in dialetto ma, in alcune occasioni ritenute importanti, si esprime in italiano… dialettale. Da casa sua, ogni tanto, fuoriescono due suoni particolari: un fischio sibilante o un suono cupo. Mi hanno detto che il primo appartiene a una pentola a vapore (non so cosa sia), il secondo a una grossa e bella conchiglia: la tofa.

Non amo Giacomino, né mi rasserena il suo sorriso. Giunge a casa con una borsetta in cui ha, ben riposti, tutti gli strumenti del mestiere: un pettine, delle forbici, un rasoio e una strano attrezzo che ha una serie di denti che il bravo barbiere stringe e allenta velocemente in modo ritmico, quasi una danza sui capelli della nuca. Velocemente viene collocata una sedia vicino la porta d’ingresso, perché lì c’è più luce, e una bacinella d’acqua tiepida sul tavolo; un asciugamano viene annodato intorno al collo a me, sbuffante e recalcitrante. Ma mamma è irremovibile: bisogna tagliare i capelli altrimenti si rischia di essere cuffiati (presi in giro) con una filastrocca che suona così: due soldi non hai voluto pagà, scala scalella t’è fatto fa’. Le ciocche cadono e restano lì sul pavimento in attesa di essere spazzate via dalla scopa di mamma che sta lì, pronta, in agguato. Il rito sacrificale non dura molto ma per me è un’eternità, trattengo il respiro, in apnea. Quando finisce, salto giù dalla sedia e riprendo a respirare.

Pasquale Scarpati

[Pazziell’ i’ criature e oltre… (1) – Continua]

4 Comments

4 Comments

  1. martina

    16 Gennaio 2012 at 22:06

    Gentile professor Scarpati, mi sono spesso divertita a leggere i suoi racconti su questo portale, narrazioni di vita quotidiana che posso solo lontanamente immaginare. Mi ha colpito molto quest’ultimo scritto. Lei cita una certa “Tumm’tella ai Conti” che era sua nonna; il mio, di nonno, quando mi narrava delle sua famiglia mi diceva d avere una zia, sorella di suo padre, che abitava ai Conti e aveva quel medesimo nome. Mi può dare qualche informazione per sapere se c’è un legame tra le due donne o sono solo omonime. La ringrazio,
    Cordiali saluti
    Martina

  2. Pasquale

    19 Gennaio 2012 at 21:03

    Cara Martina
    In questo periodo denso di preoccupazioni che ci possono rendere arcigni e sospettosi penso sia bello abbandonarsi ad un sorriso, divagando nel passato. Rispondo al tuo quesito. Mia nonna Tumm’tella, moglie di Raffaele Conte, apparteneva ai Mazzella di Santa Maria ( cugina del dott. Mazzella). Abitava nella parte alta dei Conti. Puoi tu darmi ragguagli su tuo nonno? Ti ringrazio e caramente ti saluto – Pasquale

  3. Redazione

    20 Gennaio 2012 at 06:36

    Il vecchio tavolo di lavoro di ‘Pataccone’ è stato ritrovato vivere una seconda vita nella casa di uno dei collaboratori di ‘ponzaracconta’
    La Redazione

  4. martina

    20 Gennaio 2012 at 15:12

    Ringrazio calorosamente per la sua risposta. Mio nonno è Aldo Mazzella “Farfariell” il fratello più piccolo del Dottore,io sono sua nipote.Il mio bisnonno si chiamava Agostino Mazzella fratello di Tumm’tella, in tutto erano 10 figli di Liberato Mezzella e Raffaella Vitiello.
    Mi fa piacere se c’è un legame di parentela,anche se un po’ lontano, per ora le porgo i miei saluti.
    Martina

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