Aneddoti

‘A Puteca (3)

di Pasquale Scarpati

Per i primi due articoli leggi qui e qui 

 

Un’altra leccornia è il ghiaccio che proviene dalla terraferma in sacchi di iuta; non è prodotto in loco perché l’energia elettrica viene erogata solo per poche ore al giorno (Le Forna e i Conti ne sono esclusi); non esistono quindi frigoriferi, solo qualche ghiacciaia.

Un giorno si sparge la voce che Maurino a Ciancòss produce il ghiaccio. Come api che vanno a succhiare il nettare dai fiori anche noi andiamo là dove arriva o dove si produce la preziosa e scintillante bacchetta, con la speranza di poter ghermire, anche da terra, e voluttuosamente succhiare una scaglia, passandola velocemente da una mano all’altra o introducendo tutto il pezzo in bocca. Gli adulti mettono alcuni pezzi in un panno, li frantumano con un corpo contundente, li mettono in un bicchiere con qualche goccia di limone ed ottengono la… granita! I più esigenti, invece, pretendono la ’rattata perché più ‘fine’: famosa è  quella fatta da Veruccio u’ Chiattone. Si racconta che una persona, entrata nel bar, abbia chiesto a gran voce: “Veru’, famme ’na bella rattata”. Non capisco perché questa richiesta faccia sbellicare dalle risate  gli adulti.

Altro elemento di freschezza è ’u mellone d’acqua. Viene avvolto in un panno, si lega a una corda e si cala in un pozzo. Quando, dopo molte ore, si tira su e lo si gusta, tutti dicono “ Comm’ è frisc’ e sapurit’” e voluttuosamente aggiungono “C’u’mellone fai tre cose: mangie, bive e te lav’a faccia!”.

Alcune volte, nel pomeriggio, esce dal porto, rombando, una zaccalena che trascina dietro di sé in fila indiana, come anatra che nuota con i suoi pulcini, una serie di barche che hanno sulla poppa uno strano attrezzo. Mi piace vedere queste barche, di norma pesanti e lente nei movimenti, acquistare velocità insolita ed avere i baffi davanti alla prua. Non mi soffermo più di tanto nel guardarle e non mi interessa la loro rotta. Ma, dopo che l’ultimo raggio di sole si dilegua dietro le cime aguzze di Palmarola e sopraggiunge la sera e poi la notte buia, l’orizzonte si accende di occhi scintillanti che fanno da contraltare alla fioca luce che si riflette nel mare tranquillo del porto e alla penombra che sfuma a mano a mano nel nero della notte.  Sollevo lo sguardo e vedo il firmamento che si affaccia, attonito e tremolante, a guardare lo spettacolo meraviglioso che il Creatore ha donato a noi, assisi come spettatori su una gradinata di un antico teatro romano in attesa di eventi. Che non si fanno attendere: il giorno dopo numerose casse piene di pesce azzurro, freschissimo, sono distese sulla banchina o trasportate frettolosamente in qualche pescheria.

Dura è la vita del pescatore sia perché la maggior parte  dei vuzzi procede sospinti dai remi, sia perché le reti si tirano a mano, sia perché il guadagno è precario. Quando il pescato è poco, poco è il guadagno; quando, invece, il pescato è abbondante, il guadagno è lo stesso poco perché, essendo merce facilmente deperibile, il prezzo scende rapidamente; così non è raro vedere persone che buttano a mare una gran quantità  di pescato, perché, come dice mamma, il pesce, dopo un po’ di giorni, vesdenéa. È saporitissimo ma alcune specie sono considerate economicamente poco convenienti poiché tolta ’a capa, le interiora e le spine, non ci rimane niente. Come lo scorfano, che è sapurìt’, ma è tutta capa. La murena è buona se fritta e fatta a’ scapece.

Quando si parla di riggiole penso alle… mattonelle. Se si riesce a recuperare qualche pezzogna la si cucina arrosto, sui carboni, cospargendola con olio e aceto attraverso foglie di menta. Fanno eccezione alcune specie come ’u rutunno. Ne esistono di vari tipi: i più buoni sono quelli “di notte” (i raruli), poi ci sono quelli “di giorno” ed infine i tartaroni. Le reti vengono buttate al tramonto e tirate, a mano, all’alba. Sono tutte di una maglia piuttosto larga per cui il pesce piccolo riesce quasi sempre a passare. I rutunni vengono cucinati in vari modi e, per conservarli un po’ più a lungo, si friggono e si mettono sott’aceto: alla scapece. Mia nonna Tumm’tella li fa arrecanati: li lascia insaporire per un po’ di tempo, da crudi, con l’aglie, l’uoglie e ’a recate, e poi li frigge o li arrostisce. Papà dice che, in questo modo, sono un po’ pesanti. Io li preferisco. Li aborro bolliti e quando sento la puzza del merluzzo bollito, scappo; per non parlare poi del suo fegato. Mamma mi costringe a mangiarlo, come mi costringe a bere, quando sto male, una sorta di bevanda viscida e maleodorante dal colore quasi rosso (in seguito mi ha rivelato che era olio di ricino truccato con essenza di fragola!) comprata da don Mario il farmacista. Per non parlare dell’erva curallina…

La farmacia mi incute un po’di paura, di apprensione e mi mette soggezione: è tetra e si sente uno strano odore: un misto di canfora, naftalina ed erbe; sugli scaffali scuri grandi bottiglie scure, allineate, dal collo largo, e sul bancone una minuscola bilancia che serve per pesare i medicinali che il buon farmacista, dai modi gentili e affabili, avvolge in pezzetti di carta o mette in piccole buste anch’esse di carta.

Non mi piacciono neppure i mazzoni che pesco in gran quantità dalla banchina usando come esca pane e formaggio: “è cibo pe’ jatte”. Mi piacciono, invece, i calamari fritti o imbuttunati e i totani, anche se sono un po’ più duri. A volte questi molluschi, spinti dalle correnti o dai predatori, ‘stracquano’ soprattutto sulla spiaggia di Chiaia di Luna per cui, per indicare una persona che non sa fare nulla, si dice “è comme ’nu  tuotano stracquato”.

Dei crostacei preferisco ’u fellone: ne pescano tanti e li portano nei sacchi. Nessuno li vuole perché… “E’ uno sfizio, non riempiono la pancia!”. Granchi lenti, dalle lunghe chele, saporitissimi, soprattutto le femminelle perché hanno le uova. Il maschio, come al solito… “Nun serv’a nient”. Mamma lo cucina nel sugo oppure lo bolle (dice che così è più saporito) oppure con le uova della femminella fa uno strano impasto che poi cucina direttamente nella stessa coccia. A me piace soprattutto la polpa delle chele. Quando le rompo, specialmente le più grandi, sto attento a non schiacciarle del tutto; infatti, dato che non bisogna sprecare nulla, le rompo fino ad una certa altezza, faccio uscire la cartilagine e poi faccio in modo che, manovrando su di essa, il becco si muova. Così mi diverto a veder la chela come se fosse ancora viva.

E’ uno dei tanti giochi e passatempi, ’na pazziell’i criature, di cui andremo a raccontare la prossima volta…

 

Pasquale Scarpati

[’A puteca (3) – Continua]

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