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‘A Puteca (2)

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di Pasquale Scarpati

 

Per la prima parte di questo racconto, leggi qui [2]

In alcune puteche l’olfatto viene stimolato e attratto anche da odori vari provenienti dalle cucine retrostanti e non è raro vedere la titolare sparire velocemente dietro ’u pannett’ e nello stesso tempo sentire puzza di bruciato. Nel negozio di Stella questo succede spesso, soprattutto quando la figlia può rimanere da sola a conversare con mio fratello.

Anche il caffé è annoverato tra i prodotti più  nobili, infatti è venduto sfuso, o confezionato in cuppetiell’ di piccole dimensioni. Diverse sono le miscele a seconda del prezzo, ma comunque deve essere sempre rigorosamente lucido. Io mi diverto a tostarlo con una macchinetta simile a un cilindro che bisogna girare in continuazione per circa venti minuti e sempre nello stesso verso. Il profumo è inebriante. A casa lo si prepara per gli ospiti di riguardo o quando giunge il medico a visitare l’ammalato. La macchinetta napoletana lo filtra lentamente cosicché, in attesa, si  possono scambiare volentieri due chiacchiere. Il liquido che fuoriesce la prima volta è molto ristretto, perciò molti non disdegnano di rifarlo una seconda volta con la stessa posa. Allora si chiama ‘u sciacquariéll’.

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A noi bambini è proibito assumere caffé ma non di rado a scuola ci accompagna l’altro elemento nobile: l’olio. Alcune mattine, infatti, qualche sua goccia cade su una fetta di pane, viene distesa con l’indice e condita con sale, oppure serve per far aderire meglio lo zucchero. A me non piace molto questa colazione che mamma, furtivamente, mette nel cestino e in seguito nella cartella di cartone pressato: preferirei fette di salame o di mortadella, ma i miei non fanno altro che ripetermi fino alla noia che “fanno male”. Allora ripiego sulle pastette semplici, perché anche quelle a burro “fanno male”.

È bello vederle, in ordine come soldatini, in grosse scatole colorate a forma di cubo, ma io mi diverto a metterle in disordine e ad aiutare mio padre nella vendita, come volentieri vorrei aiutarlo nella vendita delle caramelle e dei confetti che, però, stanno lì in alto, in grossi contenitori di vetro e non mi è possibile raggiungerli. Però so dove gustarli. Sono loro, infatti, che vengono da me: li aspetto al varco, all’uscita dalla chiesa.

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Si sente un trambusto, un vocio: Ivviccànn’ Stann’ascenn’! …Uomini e donne vestiti elegantemente aspettano guardando verso l’interno della chiesa. Anche noi cominciamo ad agitarci, a cercare il posto migliore. Finalmente gli sposi escono, volano i confetti e noi voliamo a… terra. Raccogliamo in tutta fretta quanti più confetti possibile, subito subito alcuni li mettiamo in tasca altri in bocca, non senza aver dato loro una  strofinata veloce e alla buona sulla maglia o sulla camicia. Dalla forma piuttosto sferica che allungata, sono durissimi ma deliziosi. Con un occhio seguiamo la traiettoria mentre volteggiano un attimo nell’aria, con l’altro cerchiamo il punto di caduta della gragnuola, noncuranti di tutto e di tutti.  Qualche volta capita che la sposa… inciampi: sicuramente la colpa non è nostra ma del vestito, forse troppo lungo o cucito male! Ma se qualche volta, oltre ai confetti, si ode il tintinnio di qualche monetina che fuoriesce dalle  guantiere, la lotta diviene furibonda, senza esclusione di colpi: gomitate, spintoni, gambe e braccia che si aggrovigliano, graffi, tagli: Aja e Mannaggia!

Tutto questo succede spesso, per tutto il tragitto che gli sposi percorrono per andare là dove si terrà il festino.

I confetti più nobili, dalla forma più lunga e più sottili, ovviamente non amano buttarsi nella polvere e nel fango. Essi fanno parte dell’elite dei festeggiamenti: a fine pranzo, infatti, saranno posti delicatamente in un vassoio capiente, con un cucchiaio saranno sollevati con cura, in numero dispari, e verranno riposti dolcemente in un fazzoletto nella mano tesa degli invitati.

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Aspetto voluttuosamente i dolci fatti in casa. Per me sono insuperabili: le zeppole a Natale, ’u casatiello a Pasqua e la zuppa inglese (vari strati di pastette o savoiardi inframmezzati da crema). Mio fratello ne va matto; inutilmente mia madre cerca di nasconderla, lui ha un fiuto da segugio e riesce a trovarla ovunque, lasciando noialtri  a bocca asciutta quando arriva il momento di gustarla. I invece, ho il fiuto per il latte condensato prodotto dalla Nestlé: non mi piace sciolto nell’acqua calda (così si ottiene il latte), mi piace invece quella crema densa e dolce che fuoriesce dai due fori fatti nel coperchio del barattolo; vanamente mia madre tenta di nasconderlo. Dice che fa male, in realtà è talmente concentrato che il contenuto del barattolo subito si esaurisce.

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Per non parlare dei casatielli di vari tipi e varie forme. Quelli più morbidi e quelli più ammazzaruti  che ’ndozzano ’n ganne, quelli rotondi tipo panettone e quelli intrecciati; io aspetto soprattutto quello con l’uovo sodo in mezzo. Mi piace anche ’a mustarda dalla forma vagamente quadrata, irregolare. Nonna ne possiede una bella scorta perché insieme ai fichi secchi, alle sciuscielle e ad altro fa parte dei componenti del decotto che si usa per lenire il mal di gola e la raucedine. È dolce e  gommosa: gi-gomme fatte in casa. A me, però, piace soprattutto quando, ancora morbida e cremosa, è messa sul tetto a cupola, ad asciugare al sole, per cui quando vado con i miei da nonna, sparisce la scala che porta sul tetto.

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Il pane venduto nella puteca è di diverse forme, peso e qualità. Per quanto riguarda la forma si distinguono: ’u paniéll’, ’u palatòne e l’elegante e lucida palatella che di norma è più morbida ed ha una pezzatura più piccola. Per quanto riguarda la qualità esiste il pane prodotto con la farina 0 e u’ ppane nir’ prodotto con la farina numero 1. Nessuno vuole quello fatto con la vrenna perché “è roba p’i’ puorc”. I panini, fatti con la farina 00, sono una rarità e vengono prodotti su ordinazione per occasioni particolari come i matrimoni, quando troneggiano sulla mensa imbottiti di qualche fetta di salame, insieme ai taralli ’nzogna e pepe e all’immancabile ottimo vino, possibilmente del Fieno. Ma la forma più singolare di pane sono le gallette: pane piatto dalla forma sferica, irregolare, con alcuni buchi sulla superficie, molto cotto e leggerissimo, si mette in sacchi di carta o iuta e  nell’insieme produce un suono simile a quello delle nacchere; è ideale per  lunghi viaggi  perché non fa ’a perìmm’ e se spogn’ facilmente. Ma non è raro gustarle, in barca, insaporite da un semplice pomodoro che viene lavato nell’acqua di mare così da essere anche condito di sale. Così come non è raro vedere qualche panificatore che va in giro lungo le spiagge a raccogliere la legna portata dai marosi.

A proposito di pane: la sua mollica cotta nell’acqua calda e ammorbidita con l’olio serve per fare anche una sorta di pappetta, il cataplasmo, che si mette in un panno e poi, piuttosto calda, si appoggia di colpo sui foruncoloni per ammorbidirli. In seguito, con un ago arroventato, mamma fa uscire il pus che si trova nella vescichetta gialla.  

 

Pasquale Scarpati

[’A puteca. (2) – Continua]