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Palmarola nel secolo scorso (2)

di Mimma Califano

 

Per la prima parte: leggi qui [1]

Le donne di Palmarola

 

Quanto sia stato determinante il ruolo e il  lavoro delle donne nella colonizzazione delle isole ci viene ricordato da molti Autori e meriterebbe un’ampia trattazione.

A proposito di Palmarola riportiamo quanto scritto da Silverio Corvisieri nel libro “All’isola di Ponza” [il libro e’ stato pubblicato nel 1985, quindi il riferimento è al 1800]:

“A Palmarola nel secolo scorso per lunghi anni vissero e lavorarono sette donne, in un isolamento pressoché totale, interrotto soltanto dal passaggio di qualche pescatore (che però metteva in allarme le donne) e da qualche viaggio a Ponza per trasportare sull’isola maggiore, a forza di remi, carichi di legna e di prodotti agricoli. Queste coraggiose sette donne non si limitavano a coltivare la terra: sapevano pescare, cacciare,  fare vestiti. Il Graeser nel 1897 osservò nelle acque di Palmarola un gruppo di donne che pescavano aragoste con grande dispendio di energia muscolare”.

Di queste sette donne oggi non abbiamo informazioni più precise; possiamo però ricordare quelle che nel corso del ’900 vissero buona parte della loro esistenza a Palmarola.

Meritano  di essere ricordate per  il coraggio, la forza, l’enorme fatica ed energia  con cui conducevano la vita quotidiana e familiare. A volte i loro modi possono essere stati sbrigativi, il carattere non facile, ma l’impegno della loro esistenza era tale da non lasciare spazio né tempo per convenevoli di sorta. Eppure ci piace pensare,  che nonostante la fatica quotidiana, il vivere in un luogo così particolare avrà portato nel loro animo momenti di soddisfazione e meraviglia, creando con la piccola isola un legame profondo, forse indissolubile.

Sopra la spiaggia dei “Vricci” abitava Civetell’ a’ cantinèra o Civetella ’a ’rotta  (della grotta) – al secolo Civita Tagliamonte (1889-1966). Civetella, rimasta vedova in giovane età e senza figli, coltivava la terra intorno alla sua casa.

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Foto della casa di Civetella, com’è ora, quasi sommersa dalla macchia mediterranea; sulla destra, a mare, si intravede lo scoglio Spermaturo (Spalmaturo)

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Civetella, in età avanzata, in una casa di Ponza (luglio 1963). La ragazza (tredicenne) sotto di lei è Rosaria Di Fazio, sorella di Gennaro e  futura mamma del ‘nostro’ Antonio Capone, webmaster di Ponzaracconta

All’epoca la casa, oggi immersa nella macchia mediterranea, era invece  circondata da terrazzamenti tutti coltivati e la si poteva raggiungere direttamente dalla spiaggia dei “Vricci”. Civetella provvedeva ad ogni incombenza del lavoro dei campi, anche zappare. Si racconta che in una notte di luna, durante la seconda guerra mondiale, Civetella, sfruttando il chiarore della luna, stava zappando, quando un soldato che montava la guardia nella garitta un po’ più in alto dal quel lato dell’isola, vedendo movimento volle andare a constatare di persona  cosa succedeva.

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I ruderi della garitta che spaziava sui due versanti di Palmarola: sullo sfondo lo scoglio di San Silverio con la cappelletta in cima

Verificato che era una donna e che stava lavorando, si fermò a scambiare qualche parola, incuriosito dallo stile di vita non usuale, neppure per l’epoca. Fece qualche domanda sul lavoro e sul come fosse possibile vivere in quel modo. Ad un certo punto il soldato chiese a Civetella se ad esempio era di grado di conoscere che ora fosse, pur non disponendo di un orologio. Lei smise per un attimo di zappare, alzò gli occhi al cielo dal lato di ponente e dopo qualche momento, rispose: – Quasi  le tre. Il soldato fece una corsa fino alla garitta per verificare: erano le tre meno un quarto!

L’aiutante di Civetella era il suo cane p’zz’rill’ (peccerillo – piccolo) – in realtà i cani furono diversi, ma il nome restava lo stesso. Il compito principale di p’zz’rill, oltre alla compagnia e la guardia, era di aiutare la padrona nel periodo della cattura delle quaglie con le reti. Civetella riusciva ad  addestrare così bene il suo cane che quando P’zz’rill trovava una quaglia nella macchia e la prendeva, la portava alla padrona senza emettere alcun guaito, per non allarmare le altre quaglie e non farsi sentire dai cacciatori che eventualmente si trovassero nelle vicinanze.

Le giornate di Civetella erano per lo più solitarie, in quella zona dell’isola, anche se spesso la notte scendeva a dormire nella grotta che aveva giù alla spiaggia e quindi aveva occasione di incontrare qualcuno. Ma l’unico essere con cui condivideva abitualmente la sua giornata era il cane, a cui lei dedicava tutte le attenzioni possibili. Quando stavano finendo i viveri, cosa non rara, l’ultima fetta di pane era per P’zz’rill. Civetella aveva l’abitudine di parlare al suo cane che, a quanto si racconta, sembrava la capisse. Altro compito di P’zz’rill era di avvisare la padrona. Quando Civetella doveva rientrare a Ponza, diceva al cane di andar di guardia sul pizzo di montagna antistante la sua casa e di avvisarla se vedeva arrivare la barca ’i Giròl’m’ (Girolamo) o ’i Geppine ’Ave Marie. Compito che il cane svolgeva con precisione. Riconosciuto il rumore del gozzo ben prima che si avvicinasse a terra, incominciava ad abbaiare e correva ad avvisare la padrona che poteva prepararsi in tempo per il rientro. Fa piacere sapere che Civetella non si è trovata nella condizione di dover prendere commiato per sempre da Palmarola. Semplicemente durante uno dei tanti rientri a Ponza si è sentita male. Ed è finita così.

Nella zona d’ ’a ’rott’ i’ ’ll’acqua c’erano diverse famiglie, ma la donna che  più a lungo vi ha vissuto è stata zi’ Maria Cand’, al secolo Maria Candida Aversano (1880-1962).

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Zi’ Maria Cand’,  scalza come era sua abitudine

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Zi’ Maria Cand’ con alcuni suoi ospiti, in una foto scattata fuori la sua grotta (metà degli anni ’50)

Donna di cuore e di polso,  zi’ Maria Cand’. Sposata con Francesco Romano, aveva cresciuto ben nove figli. Viveva con tutta la famiglia a Palmarola, anche se in genere teneva con sé solo i bambini più piccoli, perché quando si facevano grandicelli, dovevano andare a scuola a Ponza; poi ognuno prendeva la sua strada.

Zi’ Maria Cand’ si occupava della famiglia e poi della terra, delle galline, delle pecore; faceva anche il formaggio, che veniva poi portato a Ponza, per essere venduto. Continuava a lavorare fino all’ultimo mese di gravidanza e solo vicino al termine faceva ritorno a Ponza. Il marito per lo più pescava; quando poteva l’aiutava nei lavori di campagna. La permanenza a Ponza era limitata ai pochi mesi invernali, da novembre a febbraio, quando non c’erano attività urgenti da svolgere sul terreno ed il tempo era inclemente.

Zi’ Maria Cand’ è rimasta a Palmarola fino a pochi giorni prima di morire. Nell’ultimo periodo, dopo che il marito era venuto a mancare lei era rimasta sull’isola con l’ultimo figlio, che a differenza degli altri non si era  allontanato. La nipote Mirella (figlia di quel figlio perso prematuramente nella tragedia del piroscafo S. Lucia) la ricorda così:

 

Nello scrigno del tuo cuore                                                                                      

Il tesor di un grande amore        

     Nelle mani tue callose

     Il sudor per troppe cose

Negli scalzi piedi tuoi 

Le rinunce ognor per noi 

     Nei grembiuli tuoi cenciosi 

     Tutto il pianto di noi mocciosi 

Nel foulard legato in testa

I pensieri di una giornata lesta   

     Nelle pieghe del tuo viso  

     Sempre aperto, un gran sorriso                                                                                   

Ma negli occhi tuoi profondi

La paura e la sciagura 

Per la perdita di quel figlio

Profumato al par di un giglio 

Che, strappato alle tue braccia, 

lo cercavi nella faccia

della terra che tu amavi 

più di ogni altra cosa al mondo

ed a lei ti donavi.

                                                                               

Nella zona della spiaggia abitava Lucrezia (Lucrezia D’Arco, 1887-1962), anche Lucrezia era sposata ed anche lei ebbe nove figli, ma purtroppo non poteva contare neppure sull’aiuto del marito che doveva restare a Ponza per problemi di salute; quindi era costretta a tornare spesso per occuparsi anche di lui. Lucrezia aveva la terra nella zona della Chiana u’ viagg, dalla quale oltre a legumi e uva,  ricavava  fasci di canne e “scupazz” che poi vendeva.

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In questa foto degli inizi anni ’50  Lucrezia è fuori dalla sua grotta con la nipote Anna Vitiello, Silverio Conte – fratello del marito di una delle figlie che per molti anni l’ha aiutata nel  lavoro – e il cane        

Anche Lucrezia, dalla posizione delle stelle – ’U stellone, i tre denari, tre stelle molto luminose in fila (la cintura di Orione) e ’a Gallina (le Pleiadi), un gruppo di tante stelle non particolarmente evidenti, vicine e avvolte in una ’nebbia’ – era in grado di conoscere che ora della notte era. Il riferimento era la posizione delle stelle rispetto al faraglione di S. Silverio e alla ‘Cattedrale’. Di giorno invece si utilizzava l’ombra che il sole proiettava a terra.

Quando aveva bisogno di qualcosa dalla barca che faceva spola tra Ponza e Palmarola, il segnale convenuto era un lenzuolo bianco steso fuori la grotta.

La rivista “Ponza mia” nel marzo del 1966 (Lucrezia era morta da pochi anni)  la ricorda per la fede profonda …

La vedete quella cappelletta bianca in cima al faraglione di S. Silverio? Là c’e’ la statuetta del Santo con la lampada votiva ad olio che non si spegneva mai perché zì Lucrezia provvedeva ad alimentarla. Anzi alcuni anni fa lei stessa fece erigere la cappelletta come é oggi,  sulle rovine recenti di una piccola custodia, a sua volta eretta dal padre di lei sui resti di un antico eremo. Lì la fantasia popolare vide il luogo dell’esilio di S. Silverio. In proposito non si può fare a meno di citare il compianto Veruccio De Luca coi fratelli Ciccillo, che si misero alla testa di una sottoscrizione fra i ponzesi di New York.”

Bisogna però aggiungere  che questi sentimenti di fede profonda per il Santo erano condivisi da tutti gli abitanti di Palmarola e tutti si prodigavano per tenere accesa quella luce, come si è visto dopo che è venuta a mancare Lucrezia; oggi c’è un piccolo pannello solare.

Altra abitante storica di Palmarola è stata Giuannina ’i Leon’ (Giovanna Scotti 1900-1991). Giuannina  era di qualche anno più giovane delle vicine; il soprannome “’i Leon’” le derivava dal marito Leonardo. Ebbe due figli. Di carattere taciturno e piuttosto scontrosa; nessuno si ricorda di averla mai vista sorridere. Le sue giornate, come per tutte le altre, erano totalmente prese dal lavoro.

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‘Nonna Giovannina’ all’entrata della sua casa grotta a Palmarola: agosto 1977  [foto fornita dal nipote]

Negli anni le generazioni si sono succedute; tra le ultime donne vissute a lungo a Palmarola troviamo Rita e Silveria Aversano classe 1922 e 1923 rispettivamente.

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Foto attuale di Rita e Veruccella (Silveria) Aversano nella loro casa sopra Giancos. Rita è con il suo bastone, di un legno molto duro e liscio, come prima molti anziani usavano

Rita e Verucella pur avendo lo stesso cognome non sono sorelle; sono però poi diventate  cognate. Hanno iniziato a frequentare Palmarola quando avevano una quindicina d’anni ed hanno continuato fino agli ultimi anni ’60. Vi andavano con le rispettive famiglie che abitavano  nella zona della rott’ i’ ll’acqua. Coltivavano la terra, soprattutto grano, come ci ricorda Verucella, e spesso avevano anche  i vitelli, portati  sull’isola per l’ingrasso.

Le donne di Palmarola erano amiche, ma sempre pronte a contendersi le piccole “ricchezze” che il mare portava. Come l’amica Civetella, anche Lucrezia, era sempre accompagnata da un inseparabile cane. Dopo una ponentata facevano a gara a chi arrivava prima in spiaggia “p’u’ stracque” (per raccogliere le cose portate a riva dal mare) e di solito non erano sole:  Giuannina ’i Leon non era da meno. All’epoca qualsiasi cosa il mare portasse a riva poteva essere utile: pezzi di legno, una bottiglia,  del sughero, un pezzo di corda… Poche, povere cose di un’epoca che non conosceva lo spreco e l’inquinamento.

In proposito, ancora si racconta la storia del bottiglione portato dal mare…

Allora… Civetella e Giuannina alle prime luci dell’alba stanno perlustrando la spiaggia dopo una ponentata, quando vedono un oggetto, forse un bottiglione, galleggiare sulle onde che ancora frangono violente. È Civetella la prima a vederlo, ma l’oggetto, qualunque cosa sia, non ne vuole sapere di avvicinarsi di più, tanto che, pressata da sue faccende, decide di andarsene; mentre Giuannina resta al aspettare paziente. Qualche tempo dopo, nella povera grotta di Giuannina una grande bottiglia finemente incisa fa bella mostra di sé tra le altre cianfrusglie. Civetella la vede e dice: Ué, ma chille è ‘u bottiglione mie!

– E comme è ’u tuie? Tu te ne si’ gghiute, e l’aggie pigliate ie!

E giù una lite infinita che si protrasse per molto tempo, dopo di che le due donne, sembra, fecero la pace.

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Attraversati i mari e i decenni, il bottiglione della discordia è ora amorosamente custodito nella bottega di un artigiano di Ponza, che l’ha ricevuto in eredità dalla prozia acquisita e dove l’abbiamo potuto fotografare

Questo elenco delle donne che hanno legato a Palmarola la loro vita e il loro lavoro è assolutamente parziale e fa riferimento solo alle informazioni che si sono potute raccogliere da testimonianze dirette e fotografie. Se ne ricava però un quadro abbastanza fedele di una vita dura, essenziale, di nessuna subalternità rispetto agli uomini, che pure facevano la loro parte.

Come ci siamo trovati più volte a considerare: sembra trascorsa un’eternità, da quei modelli di vita, mentre sono passati solo poco più di cinquant’anni…

 

Mimma Califano

 

[Palmarola nel secolo scorso. 2 – Continua [12]]