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La gabbia di pietra (3)

[1]

di Carlo Bonlamperti

 

III

Ritornato in plancia, Baingio trova Commodoro intento ad ascoltare il notiziario notturno di Golfo Radio e gli chiede di alzare un po’ il volume. Del rapimento però nessuna notizia.

– L’Ingegnere ha capito che facciamo sul serio – dice il sardo con un ghigno, sputando in mare il mozzicone del sigaro – A quest’ora ormai si sarà liberato, ma non si è rivolto alla Polizia. Bravo: meglio per la ragazza e meglio anche per noi. Così possiamo scaricare l’ospite senza alcun pericolo – aggiunge Commodoro  Non manca molto ormai. Se guardi verso destra, vedi Palmarola. Una leggera virata a sinistra e tra una ventina di minuti siamo arrivati.

– L’importante è sbrigare tutta la faccenda prima che faccia giorno – dice Baingio scandendo bene le parole come se stesse ripetendo una lezione a beneficio di qualcuno – Quando si alzerà il sole, tu dovrai già essere al largo della costa dove peschi di solito. E cerca di fare le cose per bene per non destare sospetti. Io e Spagna invece resteremo sull’Isola il tempo necessario per sentire che aria tira; poi, mescolati ai turisti, torneremo sul continente col primo traghetto. Toni farà la guardia alla ragazza e starà in continuo contatto con me: gli ho dato tutte le istruzioni. E ora fammi vedere questo posto sicuro che hai trovato, ajò! [1] [2].

Giunto in prossimità dell’Isola, Commodoro riduce l’andatura e, aguzzando la vista nel buio, effettua la manovra di avvicinamento all’insenatura mettendo in folle il motore dopo qualche istante. L’abbrivio conduce il Regina Madre nelle acque scure e tranquille di Calafonte, deserta e silenziosa a quell’ora della notte, lontana com’è da discoteche e ristoranti. Non una luce che rompa il buio fitto della caletta né un riflesso sull’acqua immota in assenza di luna che dia un punto di riferimento a Commodoro, ma è sufficiente la sua lunga esperienza di nocchiero e il suo senso pratico per ormeggiare l’imbarcazione in tutta sicurezza ad una cinquantina di metri dalla riva.

Poco lontano dalla terra, alla quale è collegata da un basso fondale da cui emergono piccoli scogli tondeggianti, sorge dal mare una grande roccia vulcanica di tufo bianco, arcuata nella parte inferiore a mo’ di ponte e sufficientemente alta per costituire, scavata all’interno da mano d’uomo, un ricovero per pescatori.

Tutt’intorno la roccia presenta nicchie e rientranze, alcune simili ad una veranda ed altre a ripostigli per reti e nasse [2] [3] chiamati malanzeni dai ponzesi.

[4]

Nella parete rivolta al mare, verso Palmarola, presenta una piccola apertura, squadrata grossolanamente e dotata d’inferriata, che fornisce aria e luce all’interno.

Da poco, in previsione dell’uso particolare cui sarebbe stata destinata la grotta, l’apertura è stata modificata con l’aggiunta di una finestrella a vetro dotata di scuri. All’interno, due brande, un tavolo con due sgabelli di legno e un mobile simile ad un cassettone, sul quale è sistemata una piccola cucina a gas con due fornelli; sui ripiani del mobile, le provviste per affrontare un lungo periodo di soggiorno; nell’angolo di ponente, nei pressi della piccola finestra, dietro una tenda a forma di “L” sostenuta da assi di legno, è stato ricavato un bagno piccolo ed essenziale dotato di water chimico, di una bacinella e di un contenitore in vetroresina per l’acqua. Appesi a due chiodi, sulla parete umida da cui si distaccano piccoli pezzi di tufo, un piccolo specchio e un asciugamani nuovo, unici segni di umanità nei confronti di un prigioniero di sesso femminile.

Verso questo scoglio attrezzato per custodire Giorgia si dirige la piccola barca calata dal Regina Madre con Spagna ai remi e Baingio che sorregge la ragazza addormentata avvolta in una coperta.

Dal peschereccio, col motore in folle, Commodoro segue l’operazione, srotolando la cima che servirà a recuperare la scialuppa una volta sbarcati i quattro occupanti.

Toni è il primo a scendere a terra e provvede ad assicurare la cima all’anello arrugginito fissato allo scoglio; poi apre la porta del rifugio con le chiavi di Commodoro e si sporge dal precario imbarcadero per accogliere la ragazza che i due gli porgono dalla scialuppa malferma.

In pochi minuti il trasbordo viene completato e la prigioniera sistemata sulla branda sotto il controllo di Toni e Spagna, mentre il sardo scioglie la cima d’ormeggio della barca che Commodoro tira verso di sé, lasciandola a rimorchio del peschereccio. Poi, col braccio alzato all’indirizzo del pescatore, Baingio lo saluta nel suo dialetto: – Bai cum Deusu! [3] [5].

Commodoro però, senza rispondere al saluto, dà potenza al motore e si allontana dall’Isola.

***

All’interno della grotta, dopo aver chiuso lo scuro della finestrella per non lasciar filtrare la luce, Toni accende una piccola lampada a gas, la cui luce appiattisce i lineamenti di Baingio e di Spagna seduti attorno al tavolo e proietta sulla parete grezza la sua silhouette quando si sdraia  sulla branda.

– Stai attento a non togliere mai il passamontagna davanti alla ragazza – raccomanda Baingio al ragazzo con voce sommessa – Se piange o ti chiede qualcosa, non darle ascolto. Non scordare di metterle il cappuccio quando, per qualunque motivo, sei costretto a scoprirti il viso. Lasciala sempre legata alla branda per i piedi e liberale le mani solo per mangiare e per i suoi bisogni. Imbavagliala se cerca di urlare appena si sveglia e non farti impressionare se t’implora, ma non maltrattarla perché dovrà avere un aspetto decente quando manderemo la foto al padre. Dovrà soprattutto ubbidirti e non rifiutare il cibo.

– Cerca di non farla ingrassare troppo, altrimenti il padre non la vuole più indietro- scherza lo spagnolo, interrompendo Baingio e ricevendone in cambio un’occhiataccia di disapprovazione.

– Idiota! – gli sibila in faccia il sardo – Abbiamo i minuti contati e tu ti metti pure a scherzare! Tra poco è l’alba e noi dobbiamo sloggiare. E poi, se per caso l’hai dimenticato, ti ricordo che questo è un sequestro, non “L’Isola dei famosi”, e la galera la rischi anche tu se va storto qualcosa!

All’inattesa reazione del capo, Spagna ammutolisce come un cane bastonato, senza tuttavia eliminare dal viso quel ghigno di sfida che manda sempre in bestia Baingio quando le circostanze richiedono invece una cieca obbedienza ai suoi ordini.

– Ricordati pure – riprende il sardo rivolto a Toni – di telefonarmi tra due giorni, dopo che avrò chiamato l’Ingegnere. Vedrai che un po’ di notti insonni lo ridurranno come un agnellino e sarà più facile fargli accettare le nostre proposte. Chiamami possibilmente da un telefono pubblico sempre diverso, mascherando la voce con un fazzoletto, tanto io ti riconoscerò lo stesso. Fa in modo che ogni telefonata non superi il minuto, in modo che se le forze dell’ordine dovessero sospettare di noi, non riescano ad individuare la provenienza della chiamata. E tieni sempre presente che se ognuno di noi fa bene la sua parte (e nel dire questo fissò negli occhi lo spagnolo) tra non molto avremo tutti un bel po’ di soldi in tasca.

Detto questo, Baingio abbassa la luce della lampada e apre uno spicchio di finestra per scrutare fuori in tutta sicurezza.

[6]

Sul mare piatto, di un grigio uniforme che si confonde con il cielo, si distinguono appena i contorni di Palmarola, spruzzati d’indaco dai primi tentativi del sole di dissolvere il buio della notte. Nel silenzio del mattino, la gran pace che avvolge la natura al suo risveglio filtra all’interno della grotta assieme al rumore della risacca che lambisce gli scogli in bassa marea trascinando la ghiaia, e per un istante è come se la tragica realtà di quel rapimento si stemperasse, sopraffatta dalla forza inerme di quell’incanto che si rinnova ogni giorno allo spuntar del sole.

Il lieve lamento di Giorgia, che comincia a destarsi, fa trasalire i tre, cosicché, mentre Toni agguanta istintivamente il passamontagna e lo calza, Spagna e Baingio si avviano verso la porta per lasciare il rifugio.

Salludi e trigu [4] [7] – fa il sardo nel suo dialetto, con un mezzo sorriso sulle labbra e senza preoccuparsi se gli altri lo capiscano o no; poi, lanciato a Toni un ultimo sguardo d’intesa, raggiunge la riva con lo spagnolo, saltando da uno scoglio all’altro e facendo attenzione a non scivolare sulle alghe bagnate.

I due si avviano di buon passo per la ripida salita che s’inerpica lungo il fianco della collina e, raggiunta la strada asfaltata, non possono fare a meno di guardare in giù verso quello scoglio che racchiude il loro infame segreto.

Dall’alto, circondato dal mare che pian piano assume il colore del cielo chiaro, il rifugio sembra solo una delle tante creazioni della natura, nata dai colpi di scalpello del mare e del vento assieme agli archi, ai faraglioni, alle falesie e alle insenature da sogno che il turista ammira da sempre sull’isola.

Le poche barche, tirate in secco sullo scoglio piatto della riva, sono come macchie disordinate di colore sulla tavolozza chiara del luogo, come se la vita fosse rimasta sospesa e quasi pietrificata dalla tragica realtà racchiusa in quella roccia cava.

Ma gli occhi di Spagna e di Baingio, insensibili alla bellezza del luogo e ai colori del panorama che si apre davanti a loro, colgono solo gli aspetti pratici del rifugio, come la facilità dell’approdo dal mare e la relativa tranquillità della zona, che ne fanno il luogo ideale per la custodia di un sequestrato in quel periodo dell’anno.

Alle loro spalle, oltre la curva, sentono il clacson del piccolo pullman di linea che percorre l’intera isola unendo le due frazioni di Cala Caparra e Sant’Antonio, e un istante dopo vi salgono come due viaggiatori qualunque che prendono la prima corsa del mattino per recarsi in centro.

[8]

Il motore dell’automezzo arranca lungo i tornanti in salita fino al piccolo centro di Le Forna, di un chiaro abbacinante già a quell’ora del mattino, per poi tirare il fiato appena comincia la discesa, consentendo al nastro d’asfalto – sbiadito dal sole cocente dell’Isola e consunto da migliaia di ruote che tengono il lato interno per schivare il dirupo – di snodarsi di curva in curva, offrendo scorci panoramici davanti ai quali i due ostentano l’indifferenza di chi non vuol tradire la propria estraneità mostrando un eccessivo interesse per il paesaggio.

[9]

Poco dopo, giunti al porto, li investe il forte odore del mare e li inghiotte la policroma fiumana di gente indaffarata per la festa del Patrono.

 

Carlo Bonlamperti

 

[1] Tipica esclamazione sarda che vuol dire: “forza!”, “andiamo!”

[2] Cestelli di vimini di forma oblunga usati per la pesca. Ad un’estremità hanno un’apertura    fatta  in modo  che il pesce, una volta entrato, non possa più uscire all’esterno.

[3]   “Vai con Dio!”

[4] Salute e bene. Trigu è la versione sarda del triticum latino, cioè grano, frumento e, in senso   lato, abbondanza, benessere.

 

[La gabbia di pietra (3) – Continua]