Ambiente e Natura

Il faro e il gabbiano (6)

di Carlo Bonlamperti

Per la quinta puntata del romanzo breve: leggi qui

 

VIII

Sul finire dell’estate del ’46, Giovanni scrisse al Comando Segnalamenti Marittimi del Basso Tirreno di Napoli per chiedere il trasferimento da Zannone a Ponza. Lui contava sull’accoglimento della domanda ritenendo di averlo meritato sia per i disagi patiti assieme alla famiglia durante il periodo bellico, che per i meriti da lui acquisiti con il servizio svolto dall’isola a favore della Marina da guerra italiana ed alleata. La sua dedizione, puntuale e scrupolosa, gli avrebbe sicuramente fruttato anche un encomio da parte del Comando, ma questo riconoscimento, pur gratificandolo notevolmente, non sarebbe stato sufficiente a soddisfare appieno le sue aspirazioni.

Eppure a Giovanni un po’ dispiaceva lasciare Zannone, tanto che una parte di lui quasi si augurava che la domanda venisse respinta. Su quell’isola selvaggia, infatti, lui aveva trascorso gran parte della sua giovinezza in una famiglia numerosa che si era nutrita di semplicità e spensieratezza in piena sintonia con una natura ancora vergine, lontano dal frastuono e dai traffici di un’isola più grande o di una città costiera. Con quel trasferimento, la sua piccola famiglia si sarebbe stabilita in un paesino che indubbiamente avrebbe offerto qualche comodità in più, ma a costo di vincoli e rinunce non indifferenti.

A lui in particolare, sarebbe mancato il verde intenso del bosco e della macchia mediterranea, sul quale lo sguardo si posava dall’alba al tramonto, attirato dalla tenacia silente con cui la natura aveva colonizzato quelle rocce vulcaniche salmastre, ricoprendole con una vivace coltre di velluto. D’estate avrebbe rimpianto il canto degli uccelli e la brezza profumata di mirto e rosmarino, e d’inverno la solitudine e il silenzio di quello scoglio isolato che davano spessore ai pensieri e ai valori dello spirito.

A pesca e a caccia, naturalmente, sarebbe potuto andare anche a Ponza, ma la varietà e la quantità delle prede non sarebbe stata la stessa. E neppure la compagnia, dal momento che i signori milanesi [1], che gli avevano insegnato a cucinare il risotto con il brodo di cacciagione e a dire “nduma” [2] ai cani e mai “in bocca al lupo” a un cacciatore, per scaramanzia, avrebbero continuato a preferire la casa di caccia di Zannone e non le colline di Ponza, con i pendii più dolci e la vegetazione meno fitta e più scarsa di rifugi per i volatili.

Se compiva quel passo, quindi, era solo per offrire ai figli una maggiore opportunità per gli studi e una formazione più equilibrata con la frequentazione di parenti e coetanei, che la permanenza su quell’isola rendeva difficile. A Ponza,  tanto lui che la moglie avevano le rispettive madri, avanti negli anni e, soprattutto lui, uno stuolo di sorelle e nipoti che lo adoravano. I suoi figli, come tutti i bambini, avrebbero potuto sgranare gli occhi ai racconti delle nonne e delle zie, e giocare con i cugini e degli amici “veri”, non immaginari come quelli che erano costretti a creare a Zannone con la fantasia.

Per loro avrebbe rinunciato a quanto di essenziale, semplice e naturale aveva significato per lui Zannone, e all’attrattiva che i luoghi solitari avevano sempre esercitato su di lui, non perché fosse un eremita o un misantropo, ma perché era convinto che solo nel silenzio e nella solitudine la natura potesse essere apprezzata e goduta appieno.

E poi, Ponza veniva raggiunta con regolarità dal “postale”, che favoriva i contatti e gli scambi con la terraferma, da dove giungevano le novità della vita che vi scorreva con maggiore rapidità, e per questo era sempre un passo avanti a quella degli isolani.

Anche i suoi figli avrebbero vissuto l’esperienza festosa dell’arrivo del piroscafo, l’allegra confusione dello sbarco dei viaggiatori e delle merci e, interrogandosi sulla loro provenienza, avrebbero intuito di appartenere ad una realtà molto più grande, chiamata Italia, che si trovava appena al di là del mare. Una realtà che avrebbero scoperto la prima volta che si sarebbero imbarcati sul Regina Equa [3], trattenendo l’impazienza fino a quando sulla linea dell’orizzonte non si fosse delineata prima la massa scura e aguzza del Circeo, verso Nord-Ovest, poi i rilievi sfumati dei Monti Lepini, e ancora, da settentrione ad oriente, oltre il promontorio di Monte Orlando, le sagome decise degli Aurunci, ai cui piedi sorgono le città di Formia, Minturno, Castelforte, Sessa, e i mille agglomerati urbani che rendono quella terra varia e uniforme allo stesso tempo.

Ponti, strade, ferrovie, grandi edifici e città abitate da persone non necessariamente legate al mondo del mare, si sarebbero sostituiti al microcosmo fatto di distanze ridotte, spazi modesti, relazioni semplici e interessi essenziali, spalancando ai suoi figli gli orizzonti di un mondo di cui anch’essi un giorno avrebbero fatto parte…

L’accoglimento della domanda di trasferimento, di cui Giovanni aveva avuto notizia subito dopo la Pasqua del ’47, si sovrappose, tra gli adempimenti  legati al trasloco, agli avvenimenti decisivi di quello scorcio d’anno, all’abdicazione di Vittorio Emanuele III in maggio, al Referendum pro Repubblica o Monarchia e all’esilio di Umberto II in giugno.

Questi eventi cambiarono radicalmente il panorama politico nazionale, facendo giungere i loro echi fino a Zannone che, da quel punto di vista, non risultò affatto isolata dal resto della Penisola. Giovanni, infatti, pur assorbito dalle operazioni logistiche del trasferimento, aveva seguito quelle vicende con sua rudimentale radio a galena, ed appreso con lo stesso mezzo dell’elezione di Enrico De Nicola a Presidente della neonata Repubblica e del discorso di De Gasperi a Parigi di fronte alle Nazioni vincitrici del Conflitto Mondiale, che aveva fruttato agli Italiani l’elargizione di 50 milioni di dollari da parte degli Americani e il successivo inserimento del nostro Paese tra quelli che avrebbero beneficiato del Piano Marshall.

Come il resto degli italiani, anche lui era rimasto colpito dalla notizia dei centomila caduti e dispersi nella lotta contro il nazi-fascismo e dalla costatazione, sperimentata sulla propria pelle, che i salari e il reddito nazionale si erano dimezzati, e che il Paese era scivolato di fatto nel grigiore della “razione alimentare” [4] e della borsa nera.

In quel quadro generale e con quei presupposti, il suo trasferimento – che decretava l’abbandono di quell’angolo di mondo solo sfiorato dalla tragedia mondiale – diventava, a tutti gli effetti, un vero e proprio atto di coraggio e quasi una dichiarazione di fiducia nella rinascita dell’Italia che, a febbraio del ’47, firmò il Trattato di Parigi, dando concretezza al desiderio di pace e di stabilità che proveniva non solo dal nostro Paese ma anche dal resto del mondo.

Fu come se l’intera popolazione, pur tra i sacrifici e le criticità del periodo che stava attraversando, avvertisse il fermento della nuova vita che l’attendeva e desiderasse gettarsi alle spalle persino il ricordo dell’oppressione nazi-fascista da cui era appena uscita. E quel desiderio di libertà unito ad un atteggiamento di speranza nel futuro, sembravano avere il colore e il sapore della farina “bianca” con cui si confezionava un pane morbido e bianchissimo, che, assieme al latte condensato, alle scatolette di carne e di legumi, al “vero” caffè, al cioccolato e alle sigarette, veniva dagli Stati Uniti d’America.

Ci fu, è vero, in quel clima di ricostruzione e di speranza, il triste episodio della strage del primo maggio a Portella della ginestra, che ridestò nell’Italia intera il ricordo di attentati e rappresaglie non ancora sopito nella memoria collettiva; ma su tutto, ancora una volta, vinse la volontà di rinascita di un intero popolo, unito dalla stessa ambizione e dallo stesso sogno che sembrava progredire con la pedalata inarrestabile di Fausto Coppi che, reduce anche lui dalla guerra, quell’anno vinse il Giro d’Italia davanti a Gino Bartali, portando in alto il nome dell’Italia.

 


[1] I Casati, i Peretti, ecc.

[2] Andiamo.

[3] Vecchio piroscafo che collegava Ponza inizialmente con Gaeta e poi con Formia.

[4] 200 g. di pane al giorno;  al mese: 1200 g. di riso, 800 g. di pasta, 850 g. di carne, 500 g. di zucchero, 250 g. di lardo. Alimenti che producevano non più di 1200 calorie.

 

Carlo Bonlamperti

[Il faro e il gabbiano. (6) – Continua]

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