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Andavamo ad aguglie

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di Mimma Califano

 

Che dice… Stasera ci’a’ vulesseme i’ a fa’ na’ girata a’ auglie?                                  

Era cosi, mentre stavamo pranzando, che mio padre, Giuantonio, annunciava che stava per incominciare un’altra annata di pesca alle aguglie.

Più o meno il periodo era tra fine agosto e i primi di settembre, in base all’assenza di luna in prima sera. Il mare calmo e tranquillo, come di solito rimane per tutta l’estate, la temperatura ancora tiepida.

Uscivamo dal porto verso le nove – nove e mezza, quando il buio è ormai completo. Il motore a minimo. Le nostre erano solo uscite esplorative, per verificare se il pesce si stava avvicinando alla costa. Bastava accendere la potente pila e sotto il raggio di luce che sfiorava l’acqua, le aguglie, se ci stavano, le sentivi… Zump..cic..ciac.

Queste uscite potevano ripetersi per molti giorni, fino a quando Giuantonio decideva che ormai c’era abbastanza pesce e che era giunto il momento di armare le barche.

Questo succedeva fin verso la fine degli anni ’70.

Durante l’estate… ‘a rezza era stata accunciàt’, i cuòrc’t e i chiùmm’ ‘uardàt’ un’a uno, ’a stazz’ sistemata, ’a magnolia pronta, i mazzariéll’ mis’ a buord’  …e pure i’ rimm’. ’A gente tutta avvisata: …a’ primma serata bbona s’esce’!                                                        

Negli ultimi anni con il telefono era facile. Nei decenni precedenti le cose erano diverse. Quando c’erano le condizioni meteo per uscire a pesca –  mare calmo e assenza di luna –  bisognava andare a chiamare l’equipaggio casa per casa.   In genere 7/8 persone: ’ncopp’ Giancòs… a Santa Maria’ncopp’ i ‘Uarini… ’ncopp’ i Scuòtt’…..

In genere il compito era affidato ai ragazzini di casa, che pur avendo le gambe leste a volta si lasciavano impressionare dai racconti d’i munaciéll’. D’altronde la fioca luce di una lanterna accentuava le ombre della notte – fino agli anni ’50, Ponza era totalmente al buio – e in quei tempi la superstizione la faceva da padrone, perciò spesso queste uscite notturne diventavano occasione per confermare e amplificare i propri timori (leggi qui [2]).

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La pesca ad aguglie era fatta con due barche che procedevano poppa a poppa, in una stava la rete, nell’altra la stazza (una lunghissima cima). I gozzi (i classici gozzi ponzesi da 5/8 metri di lunghezza), avanzavano lentamente nel buio del mare e del cielo. Il più delle volte si andava  a remi (due o quattro per barca). Il silenzio era rotto solo dall’affondo dei remi nell’acqua e dai pesci – quando ci stavano – che disturbati dal fascio di luce che sfiorava l’acqua, saltavano fuori.

Giuantonio sulla prua della barca di testa, sapeva quando il pesce era abbastanza per fare nu’ vuol’. Non era pero’ raro che dopo ore che si era a pesca trovandone poco, dicesse all’equipaggio: – Ch’amma fa’?  …i pisce so’ poc’…  Pero’ si ci’à vulimm fa’ na’ mangiata, calàmm’! – E quasi sempre la gente era d’accordo a calare. Qualche chilo di aguglie, per la famiglia e per togliersi qualche piccola obbligazione, facevano sempre comodo.

Fortunatamente non sempre era così. A volte al passaggio del fascio di luce, intorno alle barche rispondeva un ampio e fragoroso frusciare, accompagnato da riflessi  argentei: aguglie tante, a volte quintali.

In un attimo partivano le indicazioni. I due gozzi iniziavano ad allontanarsi calando la rete. I minuti che seguivano erano concitati, ma mai disordinati, ognuno sapeva esattamente cosa doveva fare: “Fa’ fuchià’ ’a stazz’…(fa’ sbattere la lunga cima sull’acqua, che con il  movimento diventava fosforescente) …mene a mmare cocc’ mazzariéll… Muòve ’a magnolia (la pertica)… Vòche!  Ferme! Sìa a te! Da’ a strégne ’a rezz!

Il pesce spaventato dal rumore ma soprattutto dai riflessi argentei che venivano provocati nell’acqua, invece di allontanarsi  verso il mare aperto, finiva per andare nella direzione voluta: la rete, che gli si stava chiudendo intorno.

Nu’ vuòl’ poteva essere di qualche decina di chili o di diversi quintali. Memorabile una notte a Palmarola sul finire degli anni ’60, quando con due/tre cale si portarono a terra una dozzina di quintali di aguglie.

Quando la rete veniva stretta sotto le due barche che si erano di nuovo riavvicinate, i pesci ancora vivi e guizzanti venivano cuppiàte  (presi con il coppo) e messi a bordo.

Non era raro che si trascorresse l’intera notte, a pesca.

Si rientrava a terra, sempre un po’ infreddoliti dopo una notte per mare. Bisognava ancora  scaricare il pesce, portarlo in pescheria, ripulire e sistemare i gozzi… Eppure ricordo ancora la silenziosa soddisfazione che si poteva vedere su quei visi – spesso non più giovani – per il risultato del loro fatica.

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Mimma Califano