Archeologia

Ritratti fornesi. Michele Nocerino, conduttore di locomotore

Continuiamo a seguire con interesse le interviste del ‘nostro’ Giuseppe Mazzella a lavoranti e reduci della Miniera. Dopo quella a Vittorio Iodice (leggi qui) e quella a Ortensia Feola (leggi qui), questa volta Giuseppe ha incontrato Michele Nocerino

 

Michele Nocerino, conduttore di locomotore 

di Giuseppe Mazzella

 

“Mi mancavano solo cinque o sei giorni e avrei compiuto quarant’anni di lavoro in miniera. Purtroppo la sua chiusura mi impedì di raggiungere tale traguardo e di avere un premio come giusto riconoscimento”. Con questa parole che rimandano ad una meta a portato di mano e poi sfuggita all’ultimo momento, Michele Nocerino comincia a raccontare la sua esperienza nella miniera di bentonite di Le Forna. Classe 1924, oggi nonno di una nidiata di nipoti che i sei figli gli hanno regalato, conserva nonostante l’età una memoria di ferro e sul volto i segni di tanti anni di duro lavoro.

“Ho cominciato a lavorare alla S.A.M.I.P. nel 1937 prima come operaio e poi come conduttore del locomotore che trainava i carrelli ripieni di materiale. Il motore era a nafta e trascinava dieci carrelli che venivano riempiti a Cala Cecata e attraverso un tunnel di qualche centinaio di metri arrivava a Cala dell’Acqua. Un lavoro pesante che mi teneva impegnato otto ore di seguito. Io preferivo il lavoro notturno, dalle dieci di sera alle sei del mattino. Appena smontavo, tornavo a casa, mi lavavo e via giù la Cantina a prendere il gozzo per andare a pescare. Solo a pesca finita, era ormai passato mezzogiorno, mi potevo permettere un pasto regolare, si fa per dire, e qualche ora di riposo”. Michele, con sei figli, per anni ha dovuto condurre una vita al limite della resistenza e con l’aiuto affettuoso della moglie Margherita, è riuscito ad assicurare un’abitazione a ciascuno dei figli.

Le gallerie erano sicure? – gli domando.

“Per niente” – risponde, e racconta ancora – “Una volta mi trovai un carrello ripieno di bentonite, che si era staccato  improvvisamente dalla volta. La galleria, nella quale si andava alla fioca luce delle lampade ad acetilene, era rinforzata con pali di legno, ma a volte crollava tutto”.

“Ogni volta che lo vedevo entrare in galleria” – aggiunge la moglie Margherita – “avevo uno scoppio di pianto perché c’era sempre da temere che venisse tutto giù”. “E’ vero” – conferma Michele – “una volta rovinarono contemporaneamente i soffitti dai due lati della galleria ed io restai bloccato per ventiquattro ore. Cominciavo a disperare e sentivo le esclamazioni preoccupate dei miei compagni che tentavano di rimuovere la frana per tirarmi fuori. Riuscii a salvarmi grazie ad uno dei pozzi che erano stati costruiti proprio per i casi di emergenza lungo il traforo”.

Una vita precaria e di sofferenza che ha inciso anche sulla sua salute. Oggi, e da anni, soffre infatti di problemi respiratori. “Una volta” – aggiunge – “la galleria prese fuoco. Per fortuna mi trovavo all’aperto. Forse perché si erano accumulati dei gas infiammabili”.

La sua abitazione è in località Fontana, a duecento metri in linea d’aria dalla miniera, in una zona dove gli antichi romani o addirittura prima di questi i greci, realizzarono uno degli acquedotti scavati in roccia più importanti del Mediterraneo. Un acquedotto perfettamente conservato fino a qualche decennio fa, anche grazie ad una regolare manutenzione.

“A provvedere alla pulizia era Masto Luigi (Pacifico), fabbro di origine pugliese” – precisa Michele – “Con lui ho attraversato più volte il condotto che collegava Cala Inferno a Cala dell’Acqua, per rimuovere il terriccio che bloccava il regolare flusso dell’acqua. In questo lungo condotto, poi, prendevo regolarmente delle anguille (i capitoni) per metterle nei pozzi di casa, allo scopo di garantirne la pulizia dai moscerini e altri animali”.

Una vita difficile, quasi elementare, dove la sopravvivenza era garantita  da una alimentazione appena sufficiente, ma soprattutto da una buona costituzione.

“La miniera”  – conclude i suoi ricordi Michele  – “è stata per me una benedizione. Alternando i miei due lavori, di operaio e di pescatore – la terra che avevo era poca – sono riuscito ad assicurare alla mia numerosa famiglia il necessario. Nonostante la durezza dell’impegno di ogni giorno, ho potuto vivere per l’intero anno a Ponza con la mia famiglia, senza essere costretto ad andare lontano per pescare come avevano dovuto  fare tanti altri. A Ponza, in quegli anni, i pesci erano tantissimi, nonostante i prezzi fossero molto bassi. In una sola mattinata pescai ben 70 granseole!”.

Quale era la tua colazione?

“Una manciata di fichi secchi, un pezzo di pane, delle carrube e poi, negli anni, il latte che ci veniva dato dalla S.A.M.I.P., forse per disintossicarci.

Quindi la miniera è stato un bene o un male per Ponza? – gli chiedo ancora.

“Per me e la mia famiglia e per numerose altre famiglie, è stato sicuramente un bene, anche se  mi ha creato gravi problemi respiratori. Cosa vuoi fare. Ai miei tempi la vita era dura e non avevamo alternative”.

  Il pontile di caricamento in una vecchia immagine conservata in casa di  Michele Nocerino

La zona mineraria vista da casa Nocerino

 

Giuseppe Mazzella

 

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