Ambiente e Natura

Il faro e il gabbiano (2)

Il Faro e il Gabbiano (2)

 

di Carlo Bonlamperti

Per la prima puntata del romanzo breve leggi qui

 

II

Il Gabbiano aveva osservato la scena dall’alto, volteggiando al di sopra del faro con larghe spire nel cielo terso. Era un gabbiano comune, dalle grandi ali con piume cinerine nella parte inferiore e il piumaggio più chiaro dalla testa alla coda. Il becco giallo e gli occhi scuri piccoli e rotondi davano al suo corpo fusiforme la giusta nota di colore, creando un insieme di grazia e proporzione che si fondevano con l’impressione di grande energia propria di un uccello adatto al volo contro vento.

Quelle tre persone sotto di lui, davanti alla casa del faro che da sempre era stata il suo punto di riferimento al ritorno dalle battute di pesca, avevano attirato la sua attenzione. Vedendole abbracciarsi, aveva pensato che fossero felici di essersi riunite dopo una breve separazione, anche se c’era qualcosa che non comprendeva nel loro atteggiamento.

In ogni caso quantomeno stavano insieme, al contrario di lui che invece stava ancora cercando disperatamente la sua compagna, svanita nel nulla con i piccoli a causa di quella tremenda esplosione!

Lui aveva visto, da poche centinaia di metri dalla riva, il bagliore accecante che aveva preceduto lo scoppio e si era spaventato, virando istintivamente sulla destra con una vera acrobazia, sospinto nella manovra dallo stesso spostamento d’aria che lo aveva investito assieme al fumo e ai detriti scagliati in aria dall’esplosione.

Tutto si era svolto in un attimo, trascorso il quale, dissipatasi la nuvola di polvere e vapor d’acqua che aveva invaso le rocce al di sotto del faro, lui aveva potuto avvicinarsi all’isola, con il triste presentimento divenuto ben presto tragica realtà: il nido con i piccoli e la sua compagna erano spariti nel nulla, trascinati via e distrutti da una forza immane che aveva mutato persino la conformazione del luogo, privando ogni cespuglio della verde livrea che copriva la collina e sradicando gli arbusti di lentisco dal livello del mare fino alla spianata del faro, cosicché dove prima c’era il nido ora si vedeva solo una grande ferita brulla senza vita, immersa nella desolazione e in un silenzio irreale.

A volo radente, il Gabbiano aveva sorvolato a lungo gli scogli scoscesi della rupe, aguzzando la vista e i sensi nel buio della sera nella vana speranza di cogliere un piccolo movimento, un pigolio di dolore, una  traccia qualsiasi che lo conducesse almeno alle spoglie dei suoi cari, ma dopo un po’ aveva dovuto desistere dai suoi sforzi per la stanchezza e il bagliore del faro che lo accecava ogniqualvolta alzava la testa verso l’alto.

Lui ce l’aveva messa tutta a costruire il nido prima dell’estate, trovando il luogo adatto proprio al di sotto del faro, ad una ventina di metri dal livello del mare, al riparo dell’incavo di una roccia e di un ciuffo di rosmarino profumato che proteggeva dal vento il suo rifugio. Naturalmente era stato l’istinto a suggerirgli il momento giusto per adempiere a quell’incombenza, ma nella ricerca del luogo adatto lui ci aveva messo qualcosa di suo: una buona dose di curiosità e perfino una certa simpatia per quei tre individui così diversi da lui e dai suoi simili, che avevano quello strano nido così grande proprio al di sopra del suo. Non li considerava affatto ostili nei suoi confronti, anzi, al contrario, sembrava gl’infondessero un senso di protezione e di sicurezza di cui non sapeva spiegarsi la ragione.

Lui era orgoglioso del lavoro che aveva fatto e l’idea del profumo del rosmarino e della luce notturna del faro era piaciuta alla sua compagna, che si era subito insediata nel nido deponendovi, dopo qualche tempo, due uova che aveva subito cominciato a covare.

Il Gabbiano, benché giovane e alla prima esperienza di coppia, guidato dall’istinto, si spingeva al largo quando la bonaccia attanagliava i dintorni dell’isola favorendo l’allontanamento dei pesci dalla costa, e si manteneva invece poco discosto dalla riva quando c’era burrasca e i pesci non azzardavano lunghi spostamenti. In entrambi i casi, tuttavia, la pesca era fruttuosa e il suo arrivo al nido era sempre salutato dal gorgoglio di soddisfazione della compagna intenta alla cova.

Ora tutto questo era finito, e il Gabbiano si sentiva il più triste degli uccelli, completamente svuotato della gioia di vivere la sua vita in libertà tra gli spazi sconfinati di quel cielo e di quel mare che conosceva da sempre. A cosa poteva servirgli, infatti, quell’isola selvaggia che sembrava fatta apposta per i gabbiani come lui, se non a ricordargli che proprio lì, da qualche parte tra quelle rocce di cui conosceva ogni anfratto, era finita l’esistenza della sua compagna e dei suoi piccoli? Come poteva più fidarsi di quel mare da cui aveva attinto da sempre la vita se ora lo stesso mare gli aveva recato la tragedia e la morte?

Da quando, al primo chiarore del giorno, aveva ripreso le ricerche, aguzzando la vista tra le rocce scoscese e le scogliere umide di salsedine, non si era concesso un solo attimo di riposo, continuando a volteggiare al di sopra della rupe e a posarsi a terra di tanto in tanto per scavare col becco o spostare detriti, ferendosi le zampe poco adatte a quel genere di lavoro, ma sembrava che tanto le rocce riarse dall’esplosione che quelle più discoste, rivestite di strame, erica e asfodelo, avessero inghiottito per sempre quelle creature.

Col trascorrere del tempo, qualcosa di simile allo scoramento e alla disperazione s’impossessarono del Gabbiano, che fu visto immobile per giorni su un roccione al di sotto del faro, assente dalle battute di pesca, smagrito ed esposto al vento che gli scompigliava le piume rese sporche e opache dalla salsedine.

Avvenne che, passato il primo momento di meraviglia, alcuni laridi suoi cugini, approfittando di quell’assenza che scambiarono per apatia, cercarono d’impossessarsi del suo territorio, provocando la sua reazione decisa e rabbiosa che lo spinse ad ingaggiare con gli intrusi veri e propri combattimenti a colpi di becco, di strida minacciose e lunghi inseguimenti fino al largo o al versante opposto dell’isola. In nessun caso infatti il Gabbiano avrebbe consentito che degli estranei potessero insediarsi nel luogo che lo aveva visto felice con la sua compagna e che custodiva, chissà dove,  i miseri resti della sua famiglia.

Quella reazione giovò all’umore del Gabbiano e lo scosse dal suo doloroso torpore, spingendolo a riprendere pian piano le sue abitudini quotidiane di pesca e di sorveglianza del territorio.

Le sue tecniche erano quelle di tutti gli altri gabbiani, sia del tipo comune che reale: lunghe evoluzioni a pelo d’acqua per esplorare la zona di caccia e tuffi improvvisi per afferrare la preda con il becco; oppure, specie dopo una burrasca o il passaggio di una barca da pesca, lente nuotate sull’acqua per beccare quanto di commestibile rimaneva a galla.

Si era persino abituato a quelle persone che vedeva durante il giorno compiere cose strane, come appendere e poi togliere delle cose colorate da un filo; versare dell’acqua in un solco attorno a delle piante, sulle quali poi spuntavano delle palline rosse; oppure infilarsi nel folto del bosco con una specie di asta scura e lucente che produceva degli scoppi secchi, per poi uscirne con una borsa a tracolla più gonfia di prima.

Ricordava perfettamente quando quelle persone, un certo giorno, da due erano diventate tre, ed una di loro, assai più piccola delle altre, durante la bella stagione stava quasi sempre seduta a terra su una pelle di muflone oppure camminava a quattro zampe all’interno di una specie di gabbia di legno.

Sulle prime il Gabbiano ne fu incuriosito, ma gradualmente si abituò anche al nuovo venuto, registrandone i movimenti e le abitudini come aveva fatto per gli altri due.

Durante le sue quotidiane evoluzioni, il Gabbiano aveva imparato a distinguere quelle persone e a prevederne persino gli spostamenti, ma diventava particolarmente euforico quando si accorgeva che la più grossa di esse, quella con i capelli chiari a onde, scendeva sugli scogli in riva al mare con un secchio in una mano e un’asta puntuta nell’altra, perché quello era il segnale che per lui ci sarebbe stato un buon banchetto.

Una di quelle volte, infatti, approfittando della calma di mare del primo mattino, Giovanni era sceso verso una piccola insenatura davanti alla quale la natura aveva creato una barriera di roccia a pelo d’acqua,  realizzando di fatto una sorta di piscina naturale, esposta a tramontana, che in dialetto ponzese veniva chiamata “a ceca ’i pisc [1]”.

Accadde che, mentre Giovanni si accingeva ad apprestare i filaccioni e a spargere un po’ di mangianza [2] tutt’intorno per attirare i pesci, all’improvviso, proprio al centro della piscina, si era creato un biancheggiare di schiuma con grosse bolle d’aria e alti spruzzi d’acqua, in mezzo ai quali s’intravedevano lunghi tentacoli con ventose grosse come un orologio da taschino e due robuste mandibole maculate dalle quali spuntava una chiostra di denti aguzzi, serrati sui tentacoli.

Giovanni capì subito che in quella cavità marina stava avvenendo la lotta tra i due acerrimi nemici di sempre: una murena gigante, dai micidiali denti ricurvi, e un grosso polpo, sbiancato dal terrore, ma deciso a vender cara la pelle. I due animali, avvinghiati in una stretta mortale, lottavano ferendosi le carni e sollevando la sabbia e i ciottoli del fondo, tanto che Giovanni, che in un primo momento aveva pensato di arpionare quel groviglio di corpi che costituiva una preda tanto ambita quanto insperata, decise invece di attendere la fine del combattimento, nel timore di vedersi sfuggire il grosso polpo che, pur di salvarsi, avrebbe sicuramente sacrificato qualcuno dei suoi tentacoli, abbandonandolo nelle fauci della vorace murena.

Anche il Gabbiano seguiva con interesse la scena, attraversando a volo radente lo specchio d’acqua, mosso dall’eccitazione e noncurante della presenza di Giovanni, che non riteneva affatto un concorrente, dal momento che ci sarebbe stato cibo in abbondanza per entrambi. E difatti fu proprio così, perché la grossa murena riuscì alla fine a piazzare un formidabile morso sulla cervice del polpo, ottenendo l’immediato allentamento della stretta dei tentacoli che le avvolgevano il corpo e il loro afflosciarsi come un ombrello chiuso; ma prima che la bestia potesse rintanarsi per divorare la preda, Giovanni assestò a sua volta un preciso colpo di arpione che uncinò mortalmente il grosso pesce trascinandolo sugli scogli, mentre la murena si contorceva sciabolando nervosamente l’aria con il polpo ancora tra i denti.

Giovanni, bagnato fradicio per gli spruzzi della lotta ma esultante per la fortuna capitatagli, fu costretto a svuotare in mare il secchio con la pastura per far posto al polpo che debordava dal recipiente; invece la murena, finita a colpi di coltello, se la issò su una spalla e con il greve fardello si avviò per il sentiero in salita che conduceva al faro.

Il Gabbiano approfittò di quella pesca fortunata per rimettersi dal lungo digiuno, saziandosi abbondantemente con la pastura gettata in mare e i resti del polpo rimasti a galleggiare sul campo di battaglia. Giovanni e la moglie apprezzarono per giorni la carne bianca della grossa murena, cucinandola in tutti i modi possibili e rendendola gradita persino alla loro bambina.

In termini di tempo il polpo durò un po’ di più, prendendosi in questo modo una tardiva rivincita sulla sua assassina: messo a seccare al sole, fece a lungo bella mostra di sé appeso alla maniglia della finestra della cucina, mentre i grossi tentacoli, simili a pregiati salami, subivano i quotidiani assalti del coltello di Giovanni che, fetta dopo fetta, ne riduceva la lunghezza per tacitare il suo formidabile appetito!

 

Carlo Bonlamperti

 

[1] In dialetto ponzese il termine definisce un invaso marino dove c’è abbondanza di pesce.

[2] Pastura per pesci.

[Il faro e il gabbiano. (2) – Continua]

Clicca per commentare

È necessario effettuare il Login per commentare: Login

Leave a Reply

To Top