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Ponza. Impianti idraulici romani (9)

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La diga di Giancos (1)

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di Leonardo Lombardi

 

In località Giancos, entro il golfo del porto di Ponza, è nota una struttura muraria, posta di traverso al fosso di Giancos che, fino a ora, è stata interpretata come un ponte sul quale sarebbe stato poggiato il canale dell’acquedotto che da Le Forna avrebbe raggiunto l’area portuale meridionale dell’isola, ove è localizzato il porto moderno. Dalle indagini svolte risulta, senza alcuna possibilità di dubbio, che si tratta invece di una diga romana, ben conservata, con struttura abbastanza evidente anche se non di facilissima lettura a causa del forte interrimento e delle alterazioni provocate dal tempo, dalla spoliazione e dall’incuria.

Oltre le cisterne e l’acquedotto i Romani avevano sentito, evidentemente, la necessità di accrescere il volume d’acqua immagazzinata e, a tal fine, avevano realizzato questo invaso artificiale che consentiva un accumulo compreso tra 10000 e 15000 m3 d’acqua che si aggiungevano ai già cospicui volumi disponibili (cisterne e acquedotto) .

La tecnica di immagazzinare acqua, nei periodi in cui è abbondante, per utilizzarla nei momenti di carenza, è stata sempre attuata dall’uomo. L’acqua poteva essere accumulata in piccoli o grandi recipienti o in cavi naturali o artificiali. Nascono cosi le cisterne e i serbatoi utili per far fronte ai periodi di emergenza. Solo più tardi, popolazioni più evolute, che praticano l’agricoltura in aree aride ove si hanno esclusivamente torrenti temporanei, spinte dalla penuria d’acqua, con i fiumi a secco per lunghi periodi dell’anno, intuiscono la possibilità e acquisiscono la capacità tecnica di accumulare e derivare l’acqua dai corsi naturali per mezzo di sbarramenti. Lungo un lasso di tempo di 3000 anni vengono costruiti sbarramenti in Giordania, Egitto, Grecia, Yemen, ma anche in Cina, Sri Lanka e nell’America Preispanica (Schnitter 1994). I Romani appresero questa tecnica soprattutto nel vicino Oriente e in particolare in Palestina. Inoltre l’influenza degli Etruschi, maestri d’idraulica, deve aver inciso in modo determinante sulle loro capacità. I Romani pertanto giunsero tardi ad applicate la tecnica degli invasi artificiali. Tuttavia, laddove lo ritennero necessario, per ragioni climatiche o per mancanza di alternative economicamente o tecnicamente pin favorevoli, essi manifestarono una stupefacente capacità nell’immagazzinare acqua in grandi e piccoli invasi artificiali, con dighe che spesso nulla  hanno da invidiare alle moderne opere, almeno quelle realizzate prima dell’introduzione del cemento armato.

Per diga si intende comunemente qualsiasi sbarramento di un corso d’acqua tale da consentire un uso dell’acqua in condizioni morfologiche e idrauliche differenti da quelle naturali. È consuetudine tuttavia distinguere le dighe dalle traverse. Queste ultime a prescindere dalle loro dimensioni (altezza, spessore e lunghezza), servono solo ad alzare il livello dell’acqua per una sua utilizzazione a quota diversa da quella naturale. Poiché nelle traverse l’opera di presa è alla quota del coronamento, il volume dell’invaso è ininfluente; se il livello dell’acqua scende al di sotto dell’incile della presa non si ha più flusso e per quanto grande possa essere l’invaso l’acqua non è utilizzabile. Le dighe al contrario si caratterizzano per un invaso, un accumulo d’acqua, che può essere utilizzato totalmente, con opportune opere di presa, prossime alla base dell’opera, che ne consentano lo svuotamento.

Gli sbarramenti artificiali, ancora oggi di difficile progettazione e realizzazione, permettono, in aree climatiche con piogge presenti solo in alcuni periodi dell’anno, di immagazzinare l’acqua durante la stagione piovosa per utilizzarla nei periodi di magra.

La struttura degli sbarramenti romani è a sezione rettangolare, triangolare o trapezoidale e mostra un paramento a monte (verso l’acqua) generalmente poco inclinato, un paramento a valle, normalmente rinforzato da un rilevato contrastante la spinta dell’acqua, e un coronamento spesso transitabile. Non rara la messa in opera di contrafforti, sia a monte che a valle, per contrastare la spinta dell’acqua da monte, a invaso pieno, e quella del rilevato da valle, a invaso vuoto. Le dighe romane, quasi sempre di tipo gravitario, si oppongono alla spinta dell’acqua con il proprio peso; solo in pochi casi (Glanum, Monte Novo, Kasserine) i Romani realizzarono dighe ad arco che scaricano, in tutto o in parte, la spinta dell’acqua sulle spalle, cioè sull’ancoraggio della diga ai versanti della valle intercettata dallo sbarramento.

Da un punto di vista idraulico, le dighe, a differenza delle traverse, come già ricordato, sono caratterizzate da un invaso, periodicamente colmato dall’acqua di ruscellamento, da uno scarico di superficie che, a invaso colmo, consente di smaltire eventuali piene evitando rischiosi tracimamenti sul coronamento e sul rilevato, causa principale dei crolli delle dighe in terra e, infine, dall’opera di presa, opera idraulica che consente di prelevare l’acqua, quasi dal fondo della diga, e allacciarla all’adduttrice che la condurrà fino alle utenze.

Tenuto conto di questi aspetti e delle difficoltà della progettazione, connesse con le indispensabili caratteristiche di impermeabilità della zona di invaso e soprattutto dell’area del sito diga, nonché delle difficoltà di costruzione dell’opera trasversalmente ad un corso d’acqua con flusso costante o periodico, si può apprezzare ancora di più la capacità tecnica dei Romani. Rispetto al problema di realizzare l’opera nel letto di un fiume (lavori che normalmente durano più anni), va sottolineato che oggi in genere si devia temporaneamente il cor so d’acqua per non rischiarne la distruzione in corso d’opera e lavorare all’asciutto. I Romani, come vedremo nei casi delle dighe di Proserpina e Cornalvo, avevano escogitato altri sistemi che consentivano loro di operare senza gravi problemi.

I Romani realizzarono le dighe con diverse finalità: approvvigionamento idrico a uso potabile; derivazione a scopo irriguo; protezione di porzioni di territorio dai rischi di alluvioni; creazione di aree pianeggianti umide alle spalle degli sbarramenti sfruttando il colmamento dell’invaso determinato dal trasporto solido del fiume sbarrato; infine a scopo ludico.

Le dighe romane rinvenute sono più di cento, ma quelle per le quali è stato possibile ricavare, dalla bibliografia, o attraverso sopralluoghi, i necessari dati tecnici per una loro valutazione, sono poco più di dieci.

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Nella fig. 28 sono riportate le localizzazioni delle dighe e delle traverse segnalate in bibliografia o direttamente osservate.

Nelle tabelle che seguono vengono utilizzate delle sigle per distinguere scopo e tipo di diga; i riferimenti bibliografici si riferiscono alle pubblicazioni più recenti, che indicano la bibliografia essenziale, o agli studi più importanti e più dettagliati.

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Leonardo Lombardi

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