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A malapena si vede… Ponza (7)

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Contrariamente a quanto aveva annunciato – di voler interrompere la pubblicazione del suo racconto –  e anche grazie alle richieste di alcuni lettori, l’Autrice ci manda un’altra puntata di “A malapena si vede… Ponza”.  La Redazione non può che esserne onorata e felice…

 

di Gabriella Nardacci

 

Un tuono fragoroso mi ha svegliata e il vento, fischiante e a raffiche, ha spalancato con violenza, la finestra. Piove di una pioggia diversa.

Il vento s’insinua dentro essa e modifica la traiettoria delle gocce. Alcune cadono obliquamente a destra e altre a sinistra… alcune sembra che il vento le tagli in piccolissimi pezzi che se ne vanno nella scia del vento stesso.

Il mare è increspato e le onde hanno perso l’equilibrio. Inciampano tra loro, si scontrano sugli scogli rumorosamente, adagiano sulla spiaggia conchiglie e tronchetti vuoti, mentre le barche e i pescherecci dondolano a ritmo disordinato e si toccano come fossero bambini che si provocano prima di prendersi a botte.

Cerco di scorgere la linea dell’orizzonte ma si vedono solo ammassi di nuvole cariche e scontrose. Tutti i colori intorno sono ovattati e nascondono, in un velo spesso, anche la forma delle case lungo la costa… le case che si trovano poco prima del porto che appare come un vecchio, in attesa che cessi la tempesta.

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I grigi del cielo e delle cose intorno, confondono i miei pensieri che, improvvisamente diventano intimi, in penombre determinate dal tempo che scorre incurante di tutti e di ogni cosa.

E’ solo una mattina di primavera e sembra un pomeriggio di autunno inoltrato; penso che forse è davvero triste l’isola senza il sole anche se rimane pur sempre suggestiva.

Giulia dorme di un sonno pesante, tipico dei giovani.

La vedo completamente spostata al centro del letto. Mi è stata addosso per tutta la notte e ne ho sentito il respiro calmo e regolare.

Mi siedo accanto alla finestra e il tenue chiarore del giorno illumina le pagine di un libro che sto per iniziare. Leggo la presentazione e mi distraggo dalla lettura poiché non sento più il vento e le onde hanno ripreso a il loro andamento ordinato sulla riva.

Piove ancora e la pioggia sul mare ha la forza di distogliermi da altre cose per focalizzare l’attenzione sul fenomeno stesso.

Ora le gocce di pioggia scendono pesanti come piombo e rade  sull’acqua bucandone la superficie. Come sassi tuffatisi dall’alto, nell’entrare in acqua, disegnano centri concentrici che si scontrano e che accolgono entro se, i loro stessi schizzi moltiplicandone le gocce.

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L‘odore del caffè  sale dalla cucina su per le scale e s’intrufola in camera.

Penso che Ines si sarà già alzata. Indosso la mia vestaglia e scendo a piedi scalzi cercando di far meno rumore possibile.

Ma trovo Giuseppe accanto alla stufetta in ghisa già accesa e con su la caffettiera che accelera borbottando la sua corsa come il mio cuore.

– Buongiorno…già sveglia? Il temporale t’ha fatto paura?

– Buongiorno a te. Sono abituata ad alzarmi presto… meno abituata a trovare il caffè pronto e fumante

I suoi occhi penetrano dentro i miei e arrivano fin  dentro l’anima e ne scorgono la piega e allora mi sorride intrigante. Si avvicina e mi prende la mano baciandomela sul palmo.

Le sue labbra sono morbide e ritraggo la mia mano chiudendola a pugno per paura che possa fuggire quell’improvviso bacio e anche perché sento Ines che ha tirato lo sciacquone del bagno e di certo verrà in cucina ora che ha sentito le nostre voci.

E non passano due minuti dal mio pensiero che Ines arriva trafelata aggiustandosi i capelli, dispiaciuta per quella giornata piovosa che avrebbe impedito la gita a Palmarola. Mi dice che è un peccato e si scusa come se fosse colpa sua.

– Sono venuta per trovare voi e Giulia e a me sta bene anche così. Passeggeremo per Ponza e avrò la scusa per tornare un’altra volta magari… – dico non troppo convinta.

– Si, mi farebbe piacere! Ricordati Cristina che ogni promessa è un debito!

Il gattino Tommy sale le scale. Ho lasciato aperta la porta della camera di Giulia e sicuramente le si sarà acciambellato sui piedi.

– Giulia dorme profondamente. Quando non va a lavorare non si sveglierebbe mai – dice teneramente Ines e Giuseppe sorride a questa tenerezza.

Ma il tempo di fare il primo sorso di caffè che Giulia scende con il gattino in braccio. Ha i capelli arruffati, il pigiamino a righe bianche e fucsia (o meglio…fussia) e un paio di pantofolone da cui sbucano due occhioni assonnati e il nasino coi baffi di un gatto sornione e pigro che, senza successo, Tommy cerca di coinvolgere nelle sue corse su per le scale e dentro casa.

Vista quando si sveglia, Giulia è una bambina cresciuta solo in altezza. Conserva la grazia infantile della meraviglia e quello sguardo languido e malinconico che ben conosco e che tanto amo.

Si avvicina a tutti e tre e ci stampa un bacio sulla guancia farfugliando un buongiorno appena percettibile e mi si accoccola sulla spalla riempiendomi ogni tanto di bacini che io contraccambio con le carezze sui suoi capelli.

– Come vi somigliate! In quella foto che Giulia ha in camera, siete uguali. Soprattutto quando eravate giovani – dice Ines.

– Si è vero ma ora però, si vede la differenza. Tutto, in me, comincia a sottomettersi alle sollecitazioni della forza di gravità! – dico io.

– Se è per questo, anche per me è la stessa cosa – dice Ines.

– Basta con queste malinconie, donne! Dai Giuseppe, tira fuori, per l’occasione, una delle cinquanta massime di Schopenhauer che conosci – chiede Giulia.

– Hum… Ecco sì, la massima numero 35 è quella che più s’addice: “Ciò che nei nostri progetti di vita trascuriamo più spesso, quasi di necessità, sono le trasformazioni che il tempo produce in  noi stessi: ne deriva che molto spesso miriamo a cose che, quando alla fine le raggiungiamo, non ci si adattano più, oppure passiamo gli anni con i lavori preparatori a un’opera, i quali, senza che ce ne accorgiamo, ci sottraggono, nel contempo le forze per l’opera in quanto tale”.

Pertanto, care signore anche in me qualcosa si sottomette alle sollecitazioni della forza di gravità… e mi aggiungo a voi… – dice Giuseppe.

Ci guardiamo negli occhi e immaginando a cosa si riferisce Giuseppe, scoppiamo a ridere tutti e quattro. E mentre fuori, la pioggia sembra diminuire di molto, la cucina di Ines e di Giuseppe risuona delle nostre risate chiassose che spaventano Tommy, il quale si divincola dalle braccia di Giulia e salta a terra rimbalzando e facendo due rotoloni consecutivi che lo portano a sbattere la testolina nel grande vaso di terracotta con i gerani rossi che Ines ha messo dentro per paura che la pioggia e il vento li rovinasse.

Questa reale comica di Tommy accresce la nostra ilarità che, ormai avviata, esagera in gridolini, risucchi, lacrime, soffiate di naso.

Un uomo, tre donne e un gattino imbranato e impaurito, hanno vinto la malinconia che il temporale aveva provocato.

– Beh signori… vado a lavarmi e a vestirmi. Comunque, fortunatamente, io ancora non ho bisogno di mettermi a quattro zampe per avere le tette dritte – dice Giulia.

E ci lascia canticchiando mentre noi ridiamo ancora in un mugolio che va scemando.

Ci versiamo ancora un po’ di caffè e ce ne andiamo tutti e tre fuori nel terrazzino. Giuseppe oltrepassa la strada e va sulla spiaggia. Guarda le cose che il mare ha portato e raccoglie qualcosa.

La pioggia è cessata del tutto.

Gruppi di nuvole, come piccoli eserciti in ritiro dopo una battaglia se ne vanno e  lasciano che l’isola riprenda i suoi colori che, a poco a poco, risplendono come fossero stati lavati.

E il sole, in  giallo – limone, colora l’aria.

Il mare ha calmato la sua furia e appare leggermente increspato.

– Non è il caso di andare a Palmarola. Fa fresco e preferisco rimanere a Ponza… – dico a Giulia che nel frattempo profumata e pronta è scesa.

– Nessun problema zietta, andremo in giro per Ponza allora.

– Andremo tutti e vi offro il pranzo al ristorante – dico. Ma Giuseppe batte due volte l’indice sulla fronte per dirmi che son matta e si offre lui di preparare il pranzo lasciando libera Ines che accoglie entusiasticamente il nostro invito.

Siamo tre donne e in un batter d’occhio riusciamo a riordinare tutta la casa prima di uscire.

Ponza non è molto grande e in questo periodo è bella da visitare. Non c’è molta gente ad eccezione di turisti “pasquali” come me e si può camminare tra i vicoli senza doversi spostare a destra e a  manca per lasciar passare.

Ovunque mi giri vedo sempre cose appropriate al posto, dal ciottolo alla pietra grande sotto l’albero. Sarebbe un errore toglierle da lì e altrove non avrebbero senso ne’ attirerebbero l’attenzione.

Le case bianche e quelle colorate, hanno tutte le finestre che si affacciano su scorci incantevoli. Non sempre sono scorci marini ma sono, per me, lo stesso suggestivi anche quando si affacciano su altri vicoli,o davanti le finestre della casa di fronte o che “fotografano” la vetrina del negozio con le reti e le conchiglie e le stelle marine, con le collane di pietre e coralli, con i cappelli di paglia co’ i nastri e co’ le rose  e con tante calamite-souvenir con scritto Ponza, Benvenuti a Ponza, Ricordo di Ponza, e ancora Ponza e Ponza e Ponza fino a sessantuno volte e ne compero una che mi sembra un’intrusa così che il numero torna pari.

Ines mi illustra ogni cosa con padronanza e capacità dialettica. Ogni tanto si ferma a salutare qualcuno che la chiama e che le chiede chi sono. Lei, pazientemente soddisfa ogni curiosità per poi ritornare me e Giulia, che intanto parliamo di Lorenzo.

– Troppo attaccato ai suoi e non si gode i momenti con me. E’ tiepido, distratto, preso dal far soldi. Non so. Sembra già una storia vecchia ed è passato solo qualche mese!

Mi vengono in mente le parole di mio zio quando diceva che qui sono tutti sanguigni gli uomini e penso che forse i tempi son cambiati.

Giulia però non sembra affatto addolorata ma mi pongo solo in posizione d’ascolto. Ma lei vuol sapere cosa ne penso e dico: – Tu sola sai cosa è giusto per te, piccola mia…

Siamo arrivate sul “loggione” che affaccia sul porto.

Guardiamo sotto ed oltre e ci fermiamo ogni pochi passi perché, ogni volta è un paesaggio diverso quello che si vede.

Nell’ultimo tratto, si osservano più da vicino, i pescherecci con i pescatori che riordinano le reti.

Lo sguardo, poi, solca le onde e si allarga sul mare dai mille colori, abbraccia le case lungo le coste e si perde all’orizzonte che solo apparentemente appare come linea di confine eppur confine non è.

Noi che superiamo i confini geografici, del pudore, della tolleranza e della ragione, di noi stessi… non siamo però mai riusciti a capire dove sono i confini del mare per poterli superare.

Il mare senza confini.

Il mare sconfinato.

Il mare come l’amore. La paura del mare e la paura d’amare.

Strada facendo non ci siamo rese conto che è giunta l’ora del pranzo.

Il sole è ormai alto nel cielo e della notte tempestosa non è rimasta che qualche pozzanghera negli avvallamenti della strada.

Girato l’angolo vediamo Giuseppe che ci sta aspettando sul terrazzino e che, non appena ci vede, rientra in casa. Un odorino provoca il nostro olfatto e man mano che ci avviciniamo io spero arrivi dalla casa di Giuseppe. Il mio stomaco comincia a reagire brontolando che quasi me ne vergogno. Il suo brontolìo diventa sempre più rumoroso e si estende a tutto l’apparato gastrointestinale.

– Fame? – chiede Ines.

– Sì, tanta fame e sete – rispondo mentre nella testa mi sovvengono versi di Neruda che dicono “fame e sete di te m’incalza nelle notti serene…”  e a volte penso che Neruda si sia ispirato ai miei bisogni per scrivere d’amore.

Grande è la mia gioia nel constatare che quegli odori provengono dalla casa di Ines e Giuseppe e sono contenta che le mie speranze non siano state deluse.

La tavola è apparecchiata con cura e tutto è fumante e pronto. Per l’occasione Giuseppe ha indossato il cappello da cuoco e un grembiulone bianchi con il canovaccio attaccato alla cinta.

– Prego, signore belle, si accomodino – e ci fa sedere spostandoci la sedia.

Ringraziamo e per un momento fingiamo di essere tre turiste a pranzo nel ristorante

“Vattelapesca”e ci sentiamo spensierate e esageratamente allegre.

Il pranzo inizia con una zuppa di pesce fantastica e ricca, a cui seguono gli spaghetti con le vongole, pesce al cartoccio e fritto di calamari e gamberi.

Tutto cotto alla perfezione, golosamente appetitoso e i mugolii di piacere lo testimoniano.

– Giulia mi aveva già parlato delle tue doti culinarie ed anche Ines durante la passeggiata, ma non mi aspettavo questa perfezione… E’ stato tutto così perfetto che non mi sovvengono altre parole per acclamarti. E’ vero che con un cuoco così è da matti andare al ristorante! – dico a Giuseppe che ringrazia facendo un inchino.

Il pranzo è stato lungo. Tra una portata e l’altra, abbiamo raccontato tante cose e abbiamo parlato anche di scuola, di moda,di zio, di Roma.

Tommy, attratto da un fruscio, sgattaiola fuori al terrazzino e sembra incuriosito da qualche animaletto che gli cammina davanti. Giulia, curiosa anche lei, si alza e corre fuori anche lei e allora Giuseppe chiede di mia madre.

Certe domande sono difficili perché richiedono risposte dolorose se si vuol essere sinceri fino in fondo.

E poi non si possono lasciare queste domande senza risposte. Esse rimangono aggrappate fortemente dentro di te e creano dei veri temporali. Nella notte, sono capaci di tenerti sveglia, in un tormento che spossato può diventare incubo.

Una domanda senza risposta è una pietra che va a colpire un’arteria.

– Fisicamente sta bene ma, a volte, la vedo con lo sguardo perso nel vuoto e con gli occhi lacrimosi. Sento la sua sofferenza in quel momento. Sento che sta pensando a mia sorella e si addolora per non aver potuto fare nulla per aiutarla.

La sua morte è stato un fulmine a ciel sereno per lei e da quando è morta Gloria anche nei miei confronti sembra cambiata quasi mi dia la colpa per essere rimasta in vita. Pensavo che il mio conflitto con lei potesse risolversi in età adulta e invece che unirci di più, questo triste evento, ha allontanato quelle distanze già esistenti.

In fondo lei ha amato Gloria sempre più di me. Mi ricordo che, quando ritornai da Amsterdam con la bambina…

Interrompo il mio discorso perché Giulia sta rientrando con il suo gattino in braccio.

– Di cosa si parlava? – chiede.

– Parlavamo del mare – risponde Giuseppe togliendomi dall’imbarazzo.

– Faccio il caffè con la schiumetta ok? – e così dicendo Giulia si alza da tavola e con familiarità e padronanza prepara la caffettiera che mette sul fornello e prende il vassoio d’argento con la zuccheriera e le tazzine abbinate ad essa.

Poi si avvicina a Giuseppe e gli sussurra a bassa voce qualcosa nell’orecchio.

Abbiamo le guance rosse per il buon vino bevuto e un leggero intorpidimento ci blocca le gambe.

Giuseppe si alza e lentamente, con eleganza e rispetto, prende un cd dalla custodia, lo spolvera con la manica del suo maglioncino bordeaux e la musica va…

E’ una bella ballata di De Andrè  “Dolcenera”. La musica ci fa battere le mani e all’improvviso Giuseppe prende Giulia e la fa ballare e poi prende me mentre Giulia balla con Ines e poi prende Ines mentre io ballo con Giulia e ricomincia daccapo fino alla fine della canzone quando il caffè è pronto.

Ci sediamo contenti e affaticati mentre Giulia versa il caffè, nelle belle tazzine di porcellana fine, a fiorellini delicati che Ines ha tirato fuori per questa occasione.

 

Gabriella Nardacci

[A malapena si vede… Ponza (7) – Continua]