Racconti

L’inverno del ’44 (5)

di Gino Usai

Anche al motoveliero “Maria Pace Feola” di proprietà del sig. Di Monaco Giuseppe di cui era armatore Feola Antonio che si trovava in quei giorni a Gaeta toccò la stessa sorte. Un primo affondamento lo aveva subito nel porto di Civitavecchia il precedente 14 maggio. Racconta il giornalista Aldo Scussel, testimone oculare dei fatti:“Nel primo pomeriggio del 14 maggio 1943, per sette interminabili minuti la nostra città fu sottoposta ad un feroce bombardamento aereo che ridusse il porto ed il centro ad un tragico scenario. Il Vescovo, Monsignor Luigi Drago, bergamasco,(…) uscì tra le rovine a benedire i morti e i feriti(…) Il pomeriggio del 15 maggio 1943 il Re d’Italia e la Regina Elena vennero a Civitavecchia e furono accompagnati dalle poche autorità locali e dal sottoscritto sulla terrazza Marconi, ove poterono prendere visione del disastro provocato nel porto dal bombardamento. Il Re era impietrito dal dolore, mentre la Regina Elena piangeva in silenzio”.

In quell’occasione nel porto di Civitavecchia vi era ormeggiato anche il motoveliero “S. Giuseppe” di Benedetto Feola di Ponza, anch’esso colpito e affondato.

Il 23 Settembre Antonio Feola, viste le intenzioni dei tedeschi, per evitare che fossero loro ad affondare il bastimento con tutti gli irreparabili danni possibili e immaginabili, decise di affondare lui la “Maria Pace” affidando l’incarico a suo cognato, Gennarino Vitiello, che in quel momento si trovava a Gaeta. Così venne aperta una piccola falla nella stiva affinché lentamente il bastimento si adagiasse sul fondo nella speranza di poterlo recuperare in futuro senza eccessive difficoltà e senza molti danni.

La gloriosa “Maria Pace” faceva 4 miglia orarie, con una piccola cabina per 15 persone e due panche poste sopra coperta. Nella tratta Ponza – Napoli impiegava 14 ore di navigazione. Ne aveva trasportata di gente e di merce; ne aveva trasportate aragoste stipate a quintali nel vivaio dalla Sardegna in Francia; ne aveva affrontate burrasche e tempeste furibonde! Ora giaceva inerte nel porto di Gaeta ritta sul fondo, con gli alberi che uscivano dall’acqua che faceva pena, simbolo di una guerra assurda e folle come assurde e folli sono tutte le guerre del mondo. Adesso era giunto il momento di recuperarla e riportarla in vita. Antonio Feola era risoluto più che mai e si portò da Ponza il suo equipaggio composto da Silverio Zecca detto “Zecchetiello”, Mauro Di Lorenzo detto “Maurino”, Carlo Scarpati detto “Carlitto”, Antonio Aversano detto “Totonno” e un certo “Ciurcillo” di Le Forna, motorista. Silverio Zecca, esperto sub, scese in apnea e con un tampone di tela cerata otturò la falla. Quindi venne infilata un’autopompa nella stiva che cominciò a riversare acqua fuoribordo. In un giorno di lavoro il bastimento venne riportato a galla e tirata a secco in cantiere per i necessari lavori di carenaggio e recupero del motore. Furono necessari il rifacimento dell’alberatura, dello scafo, di ogni attrezzatura e dotazione, dell’apparato motore, del vivaio per il trasporto delle aragoste, per il deterioramento di ogni funzionalità causato dal prolungato affondamento

Antonio Feola noleggiò una barca da un certo “Capodiferro” di Gaeta, una sorta di gozzo, e con quello i ponzesi finalmente raggiunsero la loro isola. Giunti in porto corsero in chiesa a ringraziare S. Silverio.

Ancora una volta Antonio Feola venne tenuto in considerazione come il salvatore della patria. Ponza lentamente si andava riprendendo e giorni migliori per tutti si profilavano. Non per Antonio Feola. Per lui all’orizzonte nubi nere e temporalesche si stavano addensando. Accusato di malversazione verrà destituito dalla carica di sindaco il 29 novembre del 1945 e rinviato a giudizio. I suoi beni verranno pignorati e la sua stella tramonterà per sempre, cadendo nell’oblio. Ma una nuova storia attendeva Ponza: una storia difficile ma entusiasmante. Iniziava la faticosa ricostruzione, in pace e prosperità, e nasceva una nuova generazione, quella del dopoguerra, la nostra, che conoscerà pace e povertà.

***

La nostra storia termina qui. L’ho iniziata per ricordare l’eccidio delle Ardeatine nel 150° anniversario dell’Unità d’Italia, ma mi son lasciato prendere la mano e ho raccontato il panorama storico di Ponza entro il quale quell’efferato crimine s’inserì.

Ma prima di chiudere, sento l’obbligo di invitare i miei pazienti lettori a tenere in mente le due piccole vittime, innocenti e inconsapevoli, di queste vicende drammatiche: quei due cari bambini rimasti senza il papà: i cuginetti Teresa Fabbri ed Enrico Campanile, di sette anni. Che ne sarà di loro?

Teresa aveva perso anche la mamma, la povera Giuseppina Bosso, e rimase con gli zii paterni, Iginio Fabbri e Margherita. La povera bambina visse a Intra, una frazione del comune di Verbania, sul Lago Maggiore, la fase più dura della lotta contro il nazifascismo, con stragi, devastazioni e bombardamenti. Dopo la Liberazione, il 25 luglio del 1945, la bambina venne sfollata da Intra e raggiunse i parenti a Ponza.  La nonna materna, Lucia Guarino, accolse in casa la piccola nipotina (il nonno Giuseppe era morto) e il 16 agosto inoltrò al Comune di Ponza la richiesta di inserire la piccola Teresa, “orfana di entrambi i genitori” nell’elenco degli sfollati per  usufruire del “sussidio di sfollamento”. La richiesta venne accolta. Pochi mesi dopo, il 10 dicembre del 1945, l’Ospedale Civile di Verbania inviò al Comune di Ponza la nota delle spese relative al ricovero d’urgenza di Giuseppina Bosso, dal 23 al 30 marzo del ’44, giorno del suo decesso, per un importo totale di L. 266.  In data 15 marzo 1945 lo stesso Ospedale diffida al pagamento il Comune di Ponza insolvente, per una cifra che intanto ha raggiunto le L. 281.

Terminata la guerra, Teresa frequentò la prima elementare a Ponza,  poi si trasferì a Intra dove continuò gli studi grazie all’aiuto degli zii Iginio e Margherita, che la allevarono come una figlia; ma per le vacanze estive tornava sempre a Ponza. Divenne maestra elementare e insegnò dapprima a Intra e poi a Brescia, dove il marito Giancarlo, che sposò nel 1969, si trasferì per lavoro. Per molti anni, come maestra, si è dedicata ai bambini portatori di handicap. Teresa ha una figlia, Giuseppina con due nipotini, Alessandro e Giacomo.

Giuseppina, a cui venne dato il nome della cara nonna, si è distinta negli studi e  ha ottenuto la laurea Magistrale in Scienze Biologiche presso l’Università di Milano nel 1996, con votazione 110/110 lode.

Ha successivamente conseguito il titolo di Dottore di Ricerca in Biotecnologie e Medicina Molecolare presso l’Università di Modena  nell’anno 2003.

Quindi ha vinto una borsa di studio Telethon presso il Dipartimento di Genetica e Biologia dei Microrganismi dell’Università di Milano (1998-1999) e di una borsa FIRC presso il Dipartimento di Biologia Animale dell’Università di Modena (2000-2002).

Dal 2003 è  “visiting postdoctoral fellow” presso il Laboratory of Muscle Biology, Muscle gene expression group del National Institute of Health, Bethesda (USA).

Nel 2007 ha vinto il concorso per ricercatore universitario per il settore scientifico-disciplinare BIO-Genetica presso la Facoltà di Scienze Biomolecolari e Biotecnologie, dell’Università degli Studi di Milano.

Nella valutazione comparativa dei candidati fatta dalla commissione esaminatrice si legge:

“La Dott.ssa Giuseppina Caretti presenta un curriculum e una produzione scientifica di ottimo livello.

La Dott.ssa Caretti si è occupata in particolare dell’analisi di meccanismi che regolano la trascrizione mediante tecniche genetiche e biochimico-molecolari, sia in vitro che in vivo.” Ed ancora: “L’attività di ricerca della Dott. Giuseppina Caretti, precedentemente svolta presso il Dipartimento di Genetica e di Biologia dei Microrganismi dell’Università di Milano ed attualmente presso il Laboratory of Muscle Biology  del N.I.H. di Bethesda si è prevalentemente sviluppata nel campo della analisi dei meccanismi che regolano la trascrizione. La sua produzione scientifica, documentata da numerose pubblicazioni di cui 4 su riviste internazionali di ottimo livello, è testimonianza della continuità temporale della sua attività di ricerca anche dal punto di vista qualitativo e sta contribuendo significativamente alla comprensione dei meccanismi che regolano l’espressione genica durante il differenziamento dei mioblasti. I lavori pubblicati, 5 dei quali come primo autore, sono di notevole rigore scientifico e metodologico.”

Siamo orgogliosi di lei e ci complimentiamo vivamente.

Maria Bosso e il piccolo Enrico, terminata la guerra, rientrarono a Roma dove avevano la cartolibreria da portare avanti. Così, lentamente e faticosamente, ripresero la loro vita.

Ma la cartolibreria non era più quella di una volta, punto di riferimento per tutti gli amici, dove convenivano, accanto ai vecchi compagni di lotta e di esilio, uomini nuovi, giovani di tutte le classi sociali a sentire la parola chiara ed avvincente di Silvio Campanile e ad offrire la loro fede ed il loro braccio per la Patria.

Quella bottega, così esigua, pareva allora dilatarsi per contenere tanta ansia, tanta foga e tanta volontà. Era anche diventata il centro di raccolta degli uomini e la fucina ardente per la formazione delle bande partigiane.

La sera si trasformava in un vero bivacco e Maria di animo fortissimo, da vera ponzese,  pensava e provvedeva per tutte le necessità: divideva con i militari le scarse scorte di viveri, accudiva alla biancheria, alle cure dei malati. Là dentro era un traffico continuo, un ininterrotto andirivieni. Ora silenzio e desolazione, tristezza e malinconia, ma anche una nuova voglia di ricominciare in un’Italia finalmente libera.

A Roma Maria aveva dei parenti, la famiglia Andreozzi, che ogni tanto li andavano a trovare e quando arrivavano, Maria distogliendo il piccolo Enrico dalla lettura gli diceva: “Su, saluta gli zii che sono venuti a trovarci” ed il bambino sollevava gli occhi, salutava e poi si immergeva nuovamente nella lettura. In quei libri vi era il suo mondo, un mondo nel quale si assentava e fantasticava. I libri del negozio furono per lui un’enorme palestra di vita, che divorava con un interesse che la mamma non mancava di definire “esagerato”, per un bambino di dieci anni. A scuola era bravissimo e quando venne bandita una borsa di studio, Enrico la conseguì risultando terzo su graduatoria nazionale. Così riuscì a portare a termine gli studi in maniera brillante ed encomiabile. La cuginetta Rosetta lo definiva “un mostro di studio” che mai avrebbe potuto emulare. D’estate Maria andava a trovare i parenti a Ponza che abitavano sulla Dragonara e non mancava mai di andare al Canalone a salutare Maria Picicco, detta “la mamma dei confinati”, e raccontarle i suoi guai per trovare un po’ di conforto. Portava con sé il piccolo Enrico, sempre intento in qualche lettura. Terminata la vacanza ritornavano a Roma.

Laureato in glottologia con l’insigne maestro prof. Tristano Bolelli, Enrico diviene professore ordinario, ottenendo nel 1963 la prima libera docenza conferita in Italia in Filologia Celtica, alla Normale di Pisa. Nel 1986 viene eletto Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia, impegno che porta avanti per un anno.

Già presidente della Società Italiana di Glottologia; membro del comitato direttivo dell’Associazione Italiana di Glottologia; membro dell’Editorial Advisory Board del Journal of Indo-European Studies; tesoriere della delegazione pisana dell’Associazione Italiana di Cultura Classica.

Campanile era tra i massimi specialisti mondiali di filologia celtica e problemi della ricostruzione della cultura indoeuropea. Autore di importanti testi (una quarantina), poco prima di morire gli è stato assegnato il premio di studi Indoeuropei “Meillet” a Parigi.

Alla sua morte , avvenuta per un male incurabile il 16 ottobre del 1994, la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Pisa nel suo necrologio ha ricordato “la figura del prof. Enrico Campanile già preside della Facoltà, insigne studioso e docente sensibilmente impegnato nella vita universitaria ed esprime il proprio dolore per la sua scomparsa”. Anche il Dipartimento di Filologia Classica dell’Università di Pisa ha partecipato “al lutto che ha colpito la famiglia per la scomparsa del prof. Enrico Campanile ricordandone l’alto magistero universitario, la larga disponibilità alla collaborazione scientifica; l’importante contributo dato alla vita dell’Università di Pisa come Preside della facoltà di Lettere e Filosofia, Presidente della Commissione di Ateneo, coordinatore del Collegio dei Direttori di Dipartimento”. Ed infine: “I docenti, i ricercatori e il personale del Dipartimento di Scienze Storiche del Mondo Antico partecipano con commozione al dolore della famiglia per la scomparsa del caro prof. Enrico Campanile ricordando la figura di studioso insigne, di uomo sensibile e riservato”.

Il prof. Campanile era molto apprezzato nel mondo scientifico internazionale e la sua scomparsa ha rappresentato una grossa perdita per il mondo accademico e per la cultura italiana.

A noi resta il rammarico di non averlo conosciuto di persona per potergli esprimere tutto il nostro affetto, che però trasferiamo ai carissimi figli, Domitilla e Silvio.

***

Al termine di questa lunga storia, che speriamo possa servire a tenere viva la memoria su eventi storici e su personaggi che hanno coinvolto la nostra piccola isola nell’immensa tragedia mondiale, sento l’obbligo di dover ringraziare tutte le persone che ho contattato personalmente e che hanno contribuito con i loro racconti, di cui sono stati protagonisti o testimoni oculari, a ricostruire questo importante spaccato storico della nostra isola; molte di queste persone purtroppo non sono più tra noi; a loro un grazie più sentito e  commosso:

Eleonora Mazzella, Silverio e Ninotto Picicco, Genoveffa D’Atri, Curcio Temistocle, Rinaldo Graziosi, Totonno Scotti, Furio Conte, Lina Conte, Pasqualino Tricoli, Vincenzo Bosso, Silverio Mazzella, Assuntina Di Fazio, Rosa Andreozzi, Domitilla Campanile e tanti altri.

Gino Usai

 FINE

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