Aneddoti

Il bullone… e il pane

Dal libro di Ernesto Prudente: “Vocabolario illustrato del dialetto parlato dai pescatori e dai marinai ponziani”.

Bullone

– bullone s.m. Chiodo e dado filettati che servono per unire le lamiere.

Il termine bullone mi fa ricordare un simpaticissimo aneddoto che racconto spesso.
Siamo nell’immediato dopoguerra e la miseria non è ancora scomparsa. Ponza vive nella fame più tetra. Lo squallore dei genitori che non potevano dare un qualcosa da mangiare ai figli aveva raggiunto il grado della disperazione. Il pane e gli altri generi alimentari erano razionati. Bisognava essere grati e riconoscenti a Totonno Primo, il capitano marittimo Antonio Feola, che con un suo bastimento, il San Ciro, dopo averlo emerso nel porto di Gaeta, si recò a Napoli dove prese contatti con il Comando alleato riuscendo ad ottenere viveri per la popolazione ponzese. Giovanni D’Atri, il papà, non solo di Silverio e Gigino, ma di una prole numerosa, aveva un negozio di generi alimentari e un forno dove panificava. Si serviva di una impastatrice elettrica che una sera si fermò per la rottura del dado che teneva salda la pala. Quella notte fu costretto a impastare a mano. L’indomani Giovanni D’Atri si recò nella bottega di Maurino e Mario, due meccanici che sapevano anche lavorare il ferro, perché gli aggiustassero l’impastatrice. Chiese di Maurino che non c’era per cui fu costretto a dire a Mario il suo problema e Mario dopo il “vengo a vedere cosa bisogna fare” si recò nel forno e notò che il dado che assicurava la lama alla carcassa si era rotto. Tornò nella officina, prese un chiodo e lo segò ad una dimensione che ritenne sufficiente per il lavoretto. Ritornò nella bottega di Giovanni e sistemò in un attimo l’impastatrice.
Bisognava solo ribattere il chiodo da un lato. Giovanni gli chiese quanto doveva per il lavoro effettuato e alla risposta: “niente” di Mario, prese due filoni di pane da un chilo ciascuno, li infilò in un sacco di carta e li diede a Mario raccomandandogli il silenzio. La meraviglia di Mario fu immensa. Due chili di pane di quei tempi! Che cosa meravigliosa. Appena vide Maurino lo mise al corrente dell’accaduto. Il chiodo arrugginito che Mario aveva usato ebbe breve durata. Dopo poche ore di movimento si stroncava. E Giovanni correva da Mario e Mario di corsa, sempre con un ferro arrugginito, riparava il danno e in cambio, sempre, i due filoni e qualche volta anche un po’ di farina perché le mogli a casa potessero fare le péttule. Era una manna che pioveva quasi giornalmente.
In un giorno della solita rottura, Giovanni, come al solito, corse da Mario ma nell’officina Mario non c’era. Era su un gozzo che aveva il motore in avaria. Nell’officina c’era però Maurino a cui Giovanni confidò il suo disappunto. Maurino si avviò con Giovanni a constatare il danno e cosa occorreva per rimettere la macchina in efficienza. Guardò attentamente il danno e capì cosa bisognava fare per ripararlo. Lasciò il forno per andare nella bottega a prendere gli attrezzi necessari. In un recipiente fatto da una tanica di nafta a cui era stata tolta una parete, dove si depositavano gli scarti, niente veniva buttato, tutto poteva essere utile, trovò un vecchio bullone di acciaio che, a suo giudizio, poteva andare benissimo. Lo mise nella morsa e lo segò nella misura che riteneva giusta. Tornò alla impastatrice e sotto gli occhi di Giovanni lo sistemò al posto di quello che si era tranciato, lo ribatté con un pesante martello che si era portato dietro per fargli la capocchia perché non si sfilasse.
Fatto ogni cosa disse a Giovanni: “Nun te prèoccupà, mò è difficile ca se rompe subbete”.
Giovanni lo ringraziò e gli diede, come era solito fare, le due pagnotte di pane e i due chili di farina, da dividere con Mario. Maurino tornò in officina e poggiò il regalo, e che regalo di quei tempi!, sul banco. Quando Mario rientrò dal lavoro che stava facendo sul gozzo, vide il pane e chiese a Maurino chi glielo avesse dato e Maurino: “Sono andato da Giovanni d’Atri e gli ho sistemato l’impastatrice”. E Mario: “Cosa ci hai messo?”
“Un dado d’acciaio”, fu la risposta di Maurino.
Mario, sorridendo amaramente, gli rispose: “Mò u ppane u vvide c’u binòchele!”.

Ernesto Prudente

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