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Biografia di un paese (4)

[1]

di Ernesto Prudente

 

Romani

I romani, soggiogati i Volsci, si diedero da fare ad occupare i punti strategici del Tirreno per evitare che forze straniere penetrassero nei loro territori. Correva l’anno 441 A. C. quando i romani misero piede a Ponza e vi restarono fino alla caduta dell’impero. Ponza, per la sua posizione al centro del Tirreno, assunse una importanza strategica per il controllo della fascia litorale del continente, dall’Etruria al golfo di Napoli.
I romani avendo interessi diversi rispetto ai popoli che li avevano preceduti nella occupazione di quest’isola, e di tutto l’arcipelago, si diedero da fare per valorizzarla, organizzando e mettendo in opera strutture e servizi tali da poterla pienamente utilizzare, soprattutto in ragione della sua posizione,
posta al centro del Tirreno, che doveva servire per la conquista e il dominio del mare, di quel mare che, in seguito, venne definito dagli stessi romani “mare nostrum”.
Il porto fu l’opera primaria della base navale che i romani intesero creare a Ponza. All’inizio si arrangiarono con le strutture greche che si trovano sotto l’attuale porto borbonico. Non meno importante fu il problema idrico. Potenziarono l’acquedotto Le Forna- Ponza centro e costruirono una vasta serie di cisterne, disseminate un po’ dovunque, per la raccolta dell’acqua piovana. La necessità dell’acqua li spinse addirittura alla costruzione di una diga. Non saprei se si fossero già esercitati in altri luoghi per un’opera del genere.
Certo è che Cesare Ottaviano, prima ancora che diventasse imperatore, conobbe Ponza rimanendo affascinato dalle sue incomparabili bellezze naturali.
Si fece costruire due ville, una sulla sommità della collina della Madonna e l’altra, meno imponente ma altrettanto nobile e regale, nella vallata di Santa Maria, esposta a mezzogiorno, ai margini di un’ampia insenatura marina che, in breve tempo, con i dovuti lavori, divenne un porto. Fu proprio questa struttura a risolvere i grossi problemi relativi alla portualità isolana.
Le mareggiate, da est o da ovest, obbligavano a smaltire il movimento dei natanti sia nell’attuale porto, già allora efficiente, sia sfruttando le strutture portuali messe in opera a Chiaia di Luna.
Il porto di Santa Maria venne chiamato a svolgere tre funzioni diverse: servizio per gli abitanti dell’isola; porto rifugio, di cui sempre, anche oggi, Ponza conserva la prerogativa; piazzaforte marina per una base di forze navali capaci di controllare posizioni strategiche ed il mare per la difesa del
litorale romano.
L’uso di quella cala naturale, di quella lunga insenatura che penetrava per circa un chilometro nell’interno, risolse quasi tutti i problemi nautici dei romani.
Nei tempi moderni quasi tutti i porti hanno una parte interna, riparata dai venti e dai marosi, dotata anche di bacini di carenaggio e di attrezzature per il carico e la discarica delle merci e con depositi, magazzini ed officine.
Ed è quello che i romani fecero a Ponza.
La necessità di un porto rifugio sicuro i romani la superarono sfruttando quella naturale rientranza del mare.
Sfruttare questa ampia sacca interna di mare, riparata da qualsiasi maroso, per la sua posizione naturale, fu per i romani un invito a nozze.
Le rocce che fiancheggiavano il mare, le attuali via Pezza, a sud, e via Staglio, a nord, divennero le banchine per l’ormeggio delle navi. Nei dintorni furono costruiti magazzini e depositi.
Nella zona venne anche scavata e costruita una enorme cisterna, la “Grotta del serpente”, per la raccolta delle acque piovane che venne sfruttata attraverso un sistema di canali finalizzati a fronteggiare le esigenze e le necessità degli abitanti della zona, tra cui la casa stessa di Ottaviano, e ad alimentare la zona portuale per l’approvvigionamento delle navi, anche di quelle in transito che si fermavano per il rifornimento.
La portata del cisternone risultò inadeguata alla bisogna, per l’intenso movimento portuale, per cui i romani pensarono di usare le acque “sorgive” di Le Forna con un’opera che ha dello sbalorditivo.
Il terreno della zona settentrionale dell’isola, Le Forna, nella sua conformazione, è composto da una grande quantità di bentonite e caolino, due minerali impenetrabili all’acqua.
Le acque di cui si impregnava quest’area non potendo penetrare in profondità per l’incontro con la bentonite o con il caolino, si crearono una strada per poter uscire allo scoperto. I romani capirono il problema e lo sfruttarono appieno.
Essi, come prima cosa, pensarono di raccogliere queste acque, che scolavano verso il mare, in un cisternone che realizzarono scavando nella roccia di “Cala dell’acqua”. Successivamente indirizzarono l’acqua raccolta, sulla costa orientale attraverso un cunicolo sotterraneo che tagliò la dorsale dell’isola da ponente a levante, da Cala acqua a Cala inferno. Da quì il cunicolo continuò la sua corsa, per una lunghezza di quattro-cinque chilometri, fino a raggiungere la parte centrale e più abitata dell’isola dove gli stessi romani, seguendo l’esempio greco, avevano creato, per la conformazione delle rocce  (tufacee di colore giallo) delle opere portuali.
Il cunicolo ha una larghezza di cinquanta centimetri ed una altezza, che termina a volta, che oscilla tra il metro e settanta e i due metri e mezzo.
Il suolo di calpestio e le pareti, fino alla parte arcuata, sono ricoperti da intonaco di cocciopesto. Il cunicolo viaggia ad una altimetria di circa otto metri sul livello del mare.
Questa acqua, scorrendo ad una altitudine inferiore, non poteva arrivare nella “Grotta del serpente”, né poteva soddisfare, per lo stesso motivo, le richieste della casa di Ottaviano, né di quelle che si trovavano sulla medesima quota.
L’acqua della “Grotta del serpente” fu utilizzata, nella quasi totalità, per le esigenze delle famiglie che abitavano nella zona. Per le necessità portuali venne praticata una diramazione, chiusa da un “epistomio”, sulla conduttura proveniente da Le Forna e diretta a Ponza centro dove viveva il nucleo più numeroso di abitanti e dove vi erano in atto diverse attività bisognose di acqua.
Per fronteggiare le svariate richieste i romani furono costretti a creare un’altra raccolta d’acqua nella vallata di “Giancos”.  Sbarrarono l’impluvio con una diga, imprigliando le acque che scendevano dalle colline laterali.
La fattezza della diga, ancora oggi in uno stato di discreta conservazione, nonostante l’incuria, in piccoli blocchi di pietra viva, dà l’idea dell’invaso creato.
La struttura interna della diga mostra chiaramente che anche questa “raccolta e scorta” di acqua piovana poteva servire ad alimentare la darsena di “Santa Maria”. Al centro dello sbarramento per il contenimento del liquido vi è un foro che regolamentava il flusso dell’acqua da cui si può penetrare
nello spessore della chiusa addentrandosi in un cunicolo largo un metro e alto due.
Questo cunicolo, interamente rivestito di cocciopesto, si prolunga da un lato verso la parte centrale dell’isola, l’attuale porto, e dall’altro lato corre in direzione di Santa Maria.
Sicuramente, senza ombra di dubbio, aveva lo scopo di alimentare la darsena in caso di necessità. Il suo percorso è a pochi metri sul livello del mare.
Oggi le due estremità del cunicolo sono sbarrate per il crollo del terreno e per la costruzione di edifici.
La cosa vergognosa, scandalosa, sconcia, inaccettabile è che quel pezzo di cunicolo, che ancora regge l’urto degli anni e della nostra negligenza, sia diventato lo scarico delle fogne di alcune abitazioni dei dintorni. Tutti sanno ma nessuno interviene. E’ uno schifo!
Ad avvalorare la tesi che la darsena di Santa Maria avesse, durante l’epoca romana, una funzione portuale di primaria importanza lo conferma, oltre alla possibilità di rifornire di acqua le navi attraverso tre diverse bocche d’opera, il sistema viario che conduceva alla darsena.
I romani scavarono i trafori di Sant’Antonio, di Giancos e di Santa Maria per creare una idonea strada di accesso la cui larghezza, nelle gallerie, era quella attuale, come si può rilevare dall’ “opus reticulatum” esistente in ambedue le pareti di una galleria.
Il ripristino di quella darsena, la ricostruzione di quel porto, il recupero e la riattivazione di quell’opera romana, sarebbe la sorgente economica che cambierebbe il volto dell’isola sia sotto l’aspetto lavorativo che, soprattutto, sotto l’aspetto sociale.
Le fonti di lavoro di una volta sono scomparse. L’agricoltura è morta e seppellita da oltre un cinquantennio; il prete è al capezzale della pesca per somministrarle l’Estrema Unzione.
Ci rimane solo e soltanto il turismo, una attività nuova per gli isolani, che potrebbe dare una occupazione ai nostri figli e ai nostri nipoti, un sostegno economico per vivere e non costringerli ad evacuarel’isola.
Tolto questo c’è una sola via d’uscita: l’abbandono.
Un abbandono, ridotto e non definitivo, è già in atto, da diversi anni, per il lunghissimo periodo invernale, un tempo che va dalla fine di settembre alla fine di aprile. In questo arco di tempo Ponza si spoglia e si spopola.
La popolazione residente si riduce alla metà, forse anche meno.
Questo massiccio trasferimento provoca danni materiali e morali.
Si guadagna a Ponza, in diversi casi ci si arricchisce addirittura, e si porta fuori questa immensa ricchezza.
Sono centinaia le famiglie che spendono il danaro “sudato” a Ponza nei negozi dei paesi rivieraschi.
I negozi di Ponza, durante la stagione invernale, per mancanza di clienti, sono costretti a chiudere.
Oltre al danno economico, smisurato, c’è il danno morale, incalcolabile.
Nel periodo invernale, settembre – maggio, le strade di Ponza, anche quelle principali su cui affacciano i negozi, sono deserte e silenziose. Le porte tutte sbarrate e chiavistellate. Non c’è un minimo segno di vita. Il silenzio è scoraggiante e avvilente. Ponza diventa un cimitero, il paese dei morti,
come la definì Booklin in una sua visita nel lontano 1910.
Tutti notano e annotano ma nessuno reagisce. Il nessuno è diretto alle Istituzioni che sono assenti, latitanti e orbi.
Se non vogliamo che questo paese diventi fra non molto un paese di guardiani, un paese di persone deputate ad aver cura di case abbandonate, bisogna darsi da fare per sfruttare pienamente, nel corso dell’intero anno, le risorse che il paese possiede.
L’unica via di uscita è il turismo. Non vi sono altre strade e lo abbiamo constatato innumerevoli volte.
Il turismo ponziano è nato negli anni susseguenti la seconda guerra mondiale quando da Ponza sparirono gli ultimi retaggi di un’isola confinaria.
Prima, e per duemila anni, per ignobili voleri superiori, l’isola è stata destinata a ben altro uso. Questo è un grosso credito, e nessuno se ne rende conto, che Ponza avanza dallo Stato.
Tanti paesi timbrati perché territori di conflitto, perché distrutti dal nemico, hanno goduto di risarcimenti.
A Ponza: “Bellissima Ponza, isola martire che dalla perfidia di molti tiranni avesti nei secoli infame nomea di luogo d’esilio e le tue rare beltà vedesti escluse all’ammirazione dei liberi” (Dies), niente è stato concesso, tutto è stato negato. Non dimentichiamo che i governanti, sin dalla antichità
hanno sempre usato Ponza come un canovaccio per pulirsi le mani sporche per le invereconde spuderatezze delle matrone romane, per inimicizie politiche, per combattere i seguaci della fede di Cristo, i pirati, i corsari. Ponza si è trascinata dietro la fama di luogo per domicilio coatto, per confinati politici, per prigionieri di guerra, per scissionisti. E non si ferma quì il corso denigratorio, ingiurioso ed infamante che nel corso dei millenni è stato tenuto per Ponza. C’è da aggiungere che, per un quarantennio, lo Stato, attraverso il Ministero dell’industria, il Corpo delle mimiere e la Prefettura
ha, non solo consentito, ma autorizzato lo scempio di Le Forna uno degli angoli più maestosi di una terra, in materia di bellezze naturali, baciata dal Creatore.
Ci vorrebbe una azione di rivalsa per gli immensi danni subiti. Come l’hanno fatta diversi comuni italini. Ci vorrebbe il “lodo” Ponza.
Il nostro è un turismo nautico. Ponza è in’isola che vive nel mare e di mare. Non possiamo pensare di innevare le colline per avere campi di sci come al Sestriere, a Cortina, al Terminillo.
Dobbiamo sfruttare il mare, come si fa nel periodo giugno – settembre, in tutti suoi aspetti, senza creare scempi ambientali.
Già sento il gracidare delle ranocchie che dimenticano che l’uomo ha il diritto a vivere nel suo luogo, sulla sua terra, sfruttando, senza offendere o distruggere, quello che Dio gli ha fatto dono.
Il futuro di Ponza, la vita delle nostre generazioni, è sul mare, è nel mare.
Bisogna creare quelle strutture marine che consentano all’isolano, con il lavoro, di trarre vantaggi economici e sociali.
Ponza ha bisogno di strutture portuali che garantiscano sicurezza e movimento ai natanti, siano essi d’uso commerciale che turistico.
L’attuale porto, costruito dai Borboni (e meno male che nella storia di Ponza ci sono stati i Borboni!) nella seconda metà del settecento, nonostante i palliativi moderni che hanno lenito ma non guarito, non è più in condizioni di garantire il minimo di sicurezza alle navi, sia durante le manovre che per la successiva sosta.
A questa insicurezza è dovutà, nella maggioranza dei casi, che non sono limitati, la soppressione di corse di collegamento.
Al porto di Ponza mancano oggi le caratteristiche che lo fecero sigillare come porto rifugio.
Esso ha bisogno, urgente bisogno, di un riparo dai venti del primo quadrante che generano, al suo interno, condizioni che ostacolano il suo uso e mettono in allarme la sicurezza dei natanti.
La casistica di battelli affondati o finiti sulle spiagge è abbondante e ampia.
Questo riparo, che è di moda fin dagli anni 1950-60, non può non tener conto della discarica dell’acqua dalle navi cisterne che approvvigionano l’isola.
Molto spesso, e quasi sempre nella stagione invernale, l’isola rimane all’asciutto, anche per una settimana, perché il levante non permette l’attracco delle navi.
Trovandoci nel discorso è doveroso un accenno alle “Grotte di Pilato”.
Questo complesso di epoca romana, di immenso valore, storico e architettonico, più unico che raro, la cui nascita risale al periodo a cavallo tra la repubblica e l’impero, non può restare più abbandonato a se stesso.
E’ un’opera che si presenta ancora, nonostante sia soggetta a martellanti azioni erosive del mare e del vento, in un ottimo stato di conservazione.
Non vorrei che chi legge capisca che una chiusura ai venti da ESE elimini gli inconvenienti accennati.
NO! E mai NO!
La scogliera garantirebbe facilità di ormeggio alle navi passeggere e commerciali; permetterebbe un facile attracco alla navi cisterne e mitigherebbe i dolori delle piscine romane ma non risolverebbe i
mali dell’isola.
Ponza ha assoluto bisogno, per la sua sopravvivenza, lavorativa e sociale, di una darsena. La priorità indiscutibile e imprescindibile va data alla creazione di quelle opere che garantiscano la sosta a Ponza dei natanti da diporto anche durante il periodo invernale.
La chiusura a levante, necessaria per il lavoro mercantile e commerciale, non garantisce l’uso della rada perché è dominata dalle sfuriate dei venti provenienti da ONO che, oltre ad essere predominanti, hanno toccato spesso, molto spesso, la velocità di 150 chilometri l’ora facendo diventare la rada
una bolgia dove neanche le barche da pesca, ormeggiate nel porto borbonico, trovavano pace.
Non credo che esistano proprietari di barche da diporto che lascino il loro natante a Ponza (cosa, in fondo, affermata dalla casistica) e loro possano dormire tranquilli a Faenza, a Battipaglia o a Monza.
Perché un proprietario possa lasciare la sua barca a Ponza gli si deve dare la certezza che nessun vento le strappi gli ormeggi e che nessun maroso le svelli l’ancora e la spinga contro la roccia o su una spiaggia.
Per prolungare il lavoro per tutto l’anno, che impedirebbe l’esodo, ci vuole una darsena con tutte le sue particolari caratteristiche. La darsena, per chi non lo sappia, é: “la parte più interna e riparata del porto, talvolta sede di bacino di carenaggio, circondata generalmente da banchine sulle quali trovano posto le attrezzature di carico e scarico, officine, magazzini ecc”. Ed anche: “Specchio d’acqua interno, in porto militare o mercantile, circondato da banchine, fornito di officine e anche di bacini di carenaggio, dove si portano le navi per eseguire lavori o per tenerle in disarmo”.
La darsena dev’essere, dunque, una parte ben riparata dove possano ormeggiarsi i natanti senza che vengano investiti da marosi o sventolate.
Nessuna scogliera, né una serie di scogliere, ovunque si abbia la pretesa di costruirle, darebbero la certezza di un ormeggio sicuro e tranquillo e ciò, come abbiamo visto, perché l’isola è soggetta a manifestazioni temporalesche sia quando soffia lo Scirocco e Levante e sia soprattutto quando il
Ponente e Maestro, spirando da posizione opposta, la fanno da padrone.
E’ scientificamente dimostrato che il vento che spira da sottovento è sempre più dannoso.
Al Fieno i danni li fa il levante più che il ponente. Una leggera levantata estirpò le tende della Forestale ancorate all’interno della spiaggia di Palmarola che guarda a ponente.
Oggi, la gente interessata parla di scogliere da far nascere qua e là per tutelare interessi privati.
Ricordiamoci che una scogliera, sistemata male, stravolgerebbe l’aspetto stupendo e meraviglioso della rada.
Ma soprattutto bisogna tener conto che essun tipo di scogliera, data la conformazione e la esposizione dell’isola, garantirebbe la sicurezza dell’ormeggio invernale .
Bisogna sfruttare le insenature.
Nel progetto di sistemazione del territorio ex SAMIP, che le Amministrazioni cercano di portare a compimento (e tu ci credi?) è previsto una darsena per l’ormeggio dei natanti. Una darsena, che nascerebbe da un canale che si otterrebbe dall’incunearsi nel terreno ex minerario. Solo in questo modo si otterrebbe qualcosa di utile, qualsiasi altra interpretazione, qualsiasi altra rappresentazione, sarebbe pazzesca per l’eccessiva profondità e per le violenti mareggiate che continuamente si abbattono su quella costa.
Ponza ha bisogno di due darsene: una Santa Maria e l’altra all’interno di Cala Fontana.
Le due strutture, una volta portate a compimento, non potrebbero mai essere antagoniste e concorrenziali.
Verrebbero ad integrarsi per fattemente perché sarebbero alternative con un unico ed identicoscopo.
A Ponza Centro quest’opera dovrebbe realizzarsi a Santa Maria riesumando quello che i romani fecero quando misero piede a Ponza, oltre duemila anni fa.
I romani crearono prima l’attuale porto ma cone si avvidero che esso non era più idoneo, per insuficiente capacità di ospitare tutti i loro mezzi, sfruttarono subito l’insenatura di Santa Maria.
Ancora oggi gli abitanti di Santa Maria, anche i giovani, chiamano quella zona “Mare Ncòppe”, mare sopra.
Questa tesi non è frutto di un parto bizzarro, cervellotico, estroso ed astruso come potrebbe sembrare a primo acchito. Esso è frutto di ricerche storiche.
Che al posto delle “Pezze” vi fosse il mare lo confermano i pozzi artesiani che gli antichi coltivatori di quelle terre ebbero il buonsenso ed il giudizio di scavare per innaffiare le culture messe in atto.
Sul fondo di quei pozzi è visibile uno strato di sabbia misto a ghiaia marina e a gusci di diverse conchiglie.
I romani, con la loro ingegnosità, con la loro capacità manuale, sfruttarono pienamente quella sacca di mare destinandola, per la sua riparata posizione a qualsiasi vento, a una particolare struttura portuale.
Ponza si trovava in una posizione strategica importantissima per il dominio del Tirreno per cui divenne subito luogo di presidio per una flotta di pronto impiego e, contemporaneamente, luogo di sosta, porto rifugio, per quelle navi in transito che avrebbero avuto bisogno di approvvigionamento
idrico o di altro genere. Ponza, per i romani fu quello che ha rappresentato Malta nel secondo conflitto mondiale.
Quel porto, realizzato dai romani nella insenatura di Santa Maria, fu un’opera importante per la vitadel paese in quel periodo storico e il ripristino di quella struttura sarebbe la sorgente economica e morale che farebbe cambiare il volto del paese.

Ernesto Prudente

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