Archeologia

L’idraulica antica e la distribuzione delle acque (3)

di Leonardo Lombardi.

Leggi qui la prima parte

Leggi qui la seconda parte

 

Elementi interessanti da prendere in considerazione per i serbatoi sono anche gli scarichi di troppo pieno e gli allacci con la rete di distribuzione.

I ‘superi’ o scarichi di troppo pieno erano e sono una necessità tecnica inderogabile ed erano realizzati, nei sistemi normali e più semplici, con una apertura su una delle pareti. L’acqua, contenuta in una fistola di piombo, usciva dal serbatoio e, generalmente era dirottata verso altri usi o verso altre serbatoizzazioni.  In alcuni casi, come ad esempio alle Terme di Caracalla,  lo scarico di troppo pieno è realizzato con un’opera particolare che devia l’acqua in più in una galleria sita sotto le conserve fino a raggiungere una utenza particolare: il mulino.

Il collegamento tra il serbatoio – castellum – e la rete di distribuzione, era realizzato con uno o più calici in bronzo o piombo saldati a tubi di piombo – fistulae – collegati a una chiave (saracinesca) in bronzo che permetteva la regolazione o la chiusura del flusso. Calice e tubo erano messi in opera direttamente nel muro con il quale erano pertanto solidali, impedendo qualsiasi perdita.

In alcuni casi, idraulicamente a monte dei serbatoi, venivano costruite delle vasche limarie con lo scopo di far decantare eventuali elementi solidi in sospensione nell’acqua; funzione che poteva essere esercitata dagli stessi serbatoi con particolari accorgimenti.

L’altro elemento che caratterizza alcuni acquedotti è il ‘sifone rovescio’.

Il sifone rovescio si basa sul principio dei vasi comunicanti. Se in un tubo fatto ad U introduco da uno dei due lati del liquido, questo risale nell’altro lato del tubo ad un livello pari a quello dell’altro lato. Negli acquedotti ‘a canaletta’ o, come normalmente si dice, ‘a pelo libero’, se si incontrava una valle che doveva essere superata e se questa era troppo larga o con dislivello tra le sommità della valle e la sottostante piana, si correva al sifone rovescio. L’acqua dal canale, tramite un piccolo partitore, veniva immessa in tubi in piombo che discendevano nella valle (ventre del sifone) per risalire l’altro versante anche se ad una quota leggermente più bassa per le perdite di carico.

Naturalmente nel ventre l’acqua era sottoposta ad una pressione tanto più alta quanto più alto era il dislivello (10 m corrispondono ad una atmosfera – un chilo di pressione al centimetro quadrato). Un dislivello di 20-30 metri sottoponeva i tubi . e le saldature – ad una pressione di 2-3 chili al centimetro quadro. Pressione sufficiente a spaccare le tubazioni o le saldature che le connettevano.

I tecnici romani che ben conoscevano il problema, lo avevano risolto suddividendo il flusso con tubi di piccolo diametro che venivano poi affogati in solida muratura.

Questa tecnica, non usata negli acquedotti che alimentano Roma, è stata invece largamente utilizzata sia per superare piccoli dislivelli, sia per la distribuzione nelle città e nei grandi edifici, sia, infine, lungo i grandi acquedotti, quando non vi erano alternative per superare valli ed incisioni che non era conveniente passare con arcate che sostenessero il canale adduttore.

Il ricorso alla tecnica del sifone rovescio dipende dalle caratteristiche morfologiche e dal costo. In epoca romana era evidentemente più gravoso realizzare grandi tubature in piombo, che comportavano non solo l’acquisto del prezioso metallo, ma anche una messa in opera e una manutenzione della condotta – che con facilità presentava falle soprattutto nelle giunzioni tra gli spezzoni di tubatura – che necessitavano di mano d’opera altamente specializzata. Il costo di un canale sospeso su arcate, per quanto alto, comportava solo il reperimento e messa in opera  dei materiali che con facilità si rinvenivano sul posto e l’impiego di mano d’opera non specializzata.

La tecnica dei sifoni rovesci non è stata applicata per la prima volta dai romani. L’esempio classico che precede le grandi opere romane si rinviene a Pergamo, nell’acquedotto di età elletistica che alimentava la città.

Pergamo situata in Asia Minore (Turchia) mostra una morfologia molto adatta alla difesa ma poco adatta ad essere servita da un acquedotto; localizzata su una collina che si eleva 300 metri al di sopra della piana di Kailos ed è separata da un vallone profondo 200 metri, dalla catena di montagne  del Nord.

La città era alimentata da pozzi e cisterne d’acqua piovana e adusa ad un impiego parsimonioso dell’acqua. Eumene II, re di Pergamo tra il 197 e il 159 a. C., insistette perché si risolvesse il problema dell’approvvigionamento idrico della città. Le sorgenti più interessanti, per la quota e la portata, furono rinvenute sui monti di Madradag a quota 1230, circa 800 metri piu alte, pertanto, della quota della cittadella.

L’acquedotto con una lunghezza totale di 40 Km  era realizzato con tubi in terracotta con spessore di 4 cm e lunghezza di 50-70 cm. Le giunzioni tra i vari tubi erano realizzate con riduzioni a incastro a bicchiere rese stagne con una pasta di limo, sabbia e argilla. Il diametro dei tubi variava tra 16 e 19 cm e l’acqua correva in tre tubazioni parallele che garantivano, date le pendenze i diametri e le caratteristiche tecniche dei tubi, una portata di 45 litri al secondo corrispondenti a circa 4.000.000 di litri al giorno che, rapportati alla popolazione, stimata a 15.000 abitanti, dava una dotazione media giornaliera di 250 litri d’acqua.

Dopo un tratto in galleria, le tre condutture entravano in un serbatoio, che fungeva da camera di distribuzione, localizzato su una collina di fronte alla Acropoli ad una quota di circa 15 metri più alta della città da servire.

Dal serbatoio partivano le condotte forzate che, adagiate sul terreno scendevano nel fondo valle per risalire poi sulla collina dell’abitato. Per le condotte forzate, cioè in pressione, utilizzarono tubi, presumibilmente in piombo, infissi in blocchi di pietra forata che avevano la doppia funzione di mantenere salda e ancorata al terreno lo condotta e di consolidare le giunzioni dei vari spezzoni di tubi saldati tra loro e, certamente, molto deboli rispetto alla pressione esercitata dal carico idraulico, particolarmente nei punti di saldatura. Analisi fatte nel laboratorio dell’Università Tecnica del Medio Oriente di Ankara su materiale asportato dall’interno dei fori realizzati nei blocchi di pietra, hanno mostrato forti residui in piombo, confermando l’ipotesi che le tubazioni della condotta forzata fossero state realizzate con tale metallo.

Molti altri esempi di sifoni sono segnalati nel modo greco e, particolarmente ellenistico. quali quelli di Patara, Mylasa, Methymna, Catania, Siracusa, dei quali purtroppo non si hanno molti dati. Alcuni studiosi (Smith 1952) ritengono che “non vi è aspetto della capacità idraulica e costruttiva romana che non sia stata praticata da civiltà anteriori e particolarmente dalla greca”. E’ tuttavia indubbio che i romani estesero la tecnica e la codificarono. Vitruvio, nel suo De architectura del I sec. a. C., fornisce le indicazioni tecniche per la realizzazione di un sifone rovescio, raccomandando, in particolare, che in presenza di una valle con forma a V si dovrà provvedere a tracciare il percorso dell’acquedotto con un tratto in piano in corrispondenza del punto più basso trasformando, con il percorso dell’acquedotto, la valle da una forma a V ad una a U. L’uso dei piccoli, o talvolta grandi, tratti di tubazione in pressione nelle reti di distribuzione dell’acqua nelle città era di uso normale. Questi tratti di acquedotto, partendo da un castellum posto generalmente in alto raggiungevano una serie di utenze poste a quote più basse. Il sifone rovescio dei grandi acquedotti riporta invece l’acqua in alto in un altro castellum dal quale l’acquedotto riprende il suo normale tracciato in canale.

***

Non è possibile descrivere tutti i sifoni rovesci realizzati dai romani nei loro numerosi acquedotti. I più importanti, o per lo meno quelli per i quali si ha qualche traccia e a volte interi tratti sono: Beaumont, Alatri, Rodi, Le Tourillons, Soucieu, S. Genis, Cherchel, e Segovia. Per gli acquedotti di Roma si citano Ponte Lupo, Ponte San Pietro e, forse, Via di San Gregorio.

E’ indubbio che i sifoni rovesci più noti e appariscenti sono quelli degli acquedotti di Lione

L’acquedotto di Lione – antica Lugdunum fondata da L. Munantio Planco, che assume con Augusto il ruolo di capitale delle Gallie – ha un carattere eccezionale nell’ambito della tecnica degli acquedotti. I quattro differenti acquedotti che portano l’acqua alla città, con una portata globale vicina al m3/s, erano costretti a traversare vallate importanti che i tecnici romani preferirono superare con sifoni rovesci.  A causa della morfologia particolarmente accidentata, le opere idrauliche sono numerose e, oltre ai ponti, alle arcate e alle gallerie si contano ben otto sifoni rovesci. Il più importante è quello che traversa la valle dell’Yzeron nei pressi di Beaunant, larga 2.600 metri e profonda 140 metri. Il sifone partiva da un castello nel quale si immetteva il canale dell’acquedotto. Dal castello, di modeste dimensioni (30-40 m3), partivano invece nove tubazioni in piombo che, inglobate in possenti murature, discendevano il versante, traversavano la valle e risalivano l’altro versante fino ad un castellum che consentiva la distribuzione in città.

© Leo Lombardi – Maggio 2011

[Idraulica antica e distribuzione delle acque. (3). Fine]

 

Dopo le generalità sulle tecniche costruttive romane relative alla distribuzione delle acque, la collaborazione del dott. Leo Lombardi con il sito ponzaracconta continuerà con gli aspetti che più precipuamente riguardano Ponza.

…Ai prossimi servizi!

La Redazione

 

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