Archeologia

L’idraulica antica e la distribuzione delle acque (2)

 

di Leonardo Lombardi.

Leggi qui la prima parte

 

Alla fine del quarto secolo a.C. i romani costruirono il primo acquedotto per sopperire ai fabbisogni di Roma, che fino ad allora poteva contare su sorgenti locali, sul Tevere e su numerosi pozzi scavati sui colli e nella piana alluvionale del Tevere.

Gli acquedotti e la distribuzione dell’acqua nei centri urbani subirono nel tempo una grande trasformazione; da opere tecniche necessarie a risolvere problemi pratici, assunsero un ruolo di immagine della potenza di Roma e divennero uno dei simboli più importanti della civiltà romana.  Le grandi fontane ‘mostra’ dei terminali degli acquedotti, i ninfei, le grandi terme, le naumachie, i canali e le fogne contribuirono alla fama di Roma.

La fama  delle opere idrauliche romane varcava i confini dell’impero e rappresentava una delle meraviglie di questa civiltà che, anche attraverso il controllo dell’acqua, incuteva rispetto e timore.

Ma esistono altri elementi salienti che caratterizzano gli acquedotti: i serbatoi e i sifoni rovesci.

Si definiscono cisterne quelle che accumulavano acqua piovana per un uso procrastinato nel tempo del prezioso liquido. Si definiscono serbatoi quelli serviti da un acquedotto. Le cisterne e i serbatoi sono i ruderi che più facilmente si rinvengono integri o quasi. Essendo ambienti chiusi sono stati spesso riutilizzati mantenendo la loro funzione o trasformati in ambienti abitativi.

Pur avendo forme e dimensioni molto diverse tra loro, hanno caratteristiche costanti e di facile riconoscimento. Il pavimento e le pareti sono quasi sempre rivestite di coccio pesto. Tale intonaco messo in opera spesso in più strati, come consigliava Vitruvio (De Architectura I, VIII ),  aveva la funzione di impermeabilizzare pareti e fondo. Lo stesso intonaco, riportato sugli angoli tra le pareti e tra pareti e pavimento, aveva generalmente forma arrotondata convessa.

Altre caratteristiche fisse delle cisterne sono le pareti di forte spessore, il materiale usato per le pareti, normalmente conglomerato cementizio con scapoli di pietra ed infine la costante presenza di varie aperture così definibili:

– una o più aperture per l’accesso dell’acqua, poste in genere all’altezza dell’imposta della volta di copertura;

– una o più aperture sulla volta per l’accesso alla cisterna e per arieggiare l’ambiente;

– per le periodiche pulizie l’accesso era garantito, nelle conserve più grandi, da una scala. In alcune conserve le aperture sulla volta servivano anche per il prelievo dell’acqua con secchi. Per problemi di statica, legati alle variazioni di pressione interna durante le fasi di riempimento e svuotamento delle conserve stesse, le pareti erano rinforzate da contrafforti e speroni.

– si nota spesso, su una delle pareti, un’apertura, poco più bassa in quota rispetto allo speco di entrata dell’acqua, con la funzione di troppo pieno.

– nei serbatoi vi è infine in parete, uno o due decimetri sopra il suolo, un’apertura dove era alloggiata la tubazione che consentiva l’utilizzazione dell’acqua. Alle spalle della parete che contiene tale alloggiamento si rinviene sempre un ambiente di dimensioni ridotte, e chiuso da una porta con cardini, dove era la chiave (o le chiavi) per aprire o chiudere il flusso dell’acqua.

Alcune cisterne mostrano altre aperture, in parete, poste a quote più alte dell’apertura di base. Tali aperture consentivano un uso parziale dell’acqua accumulata, garantendo sempre la permanenza di un accumulo, a servizio probabilmente del proprietario del serbatoio.

Tutte queste aperture, nei ruderi, sono generalmente rotte, in quanto nello spessore del muro erano inglobate le tubazioni di bronzo e/o piombo e i calici che permettevano la connessione tra conserva e rete di distribuzione.

La forma e le dimensioni delle cisterne erano le più varie: si passa da piccoli serbatoi di alcuni metri cubi di capacità, a quelle gigantesche di decine di migliaia di metri cubi che servivano le grandi utenze o intere città.

Tra le più grandi e imponenti è da ricordare la grande cisterna di Istanbul, le Sette Sale, i serbatoi delle terme di Caracalla e la così detta ‘Mirabilis’ dei Campi Flegrei.

La ‘Piscina Mirabilis’ – un monumento archeologico sito nel comune di Bacoli (Na) – ha una capacità di circa 12.600 metri cubi d’acqua. E’ una cisterna grandiosa scavata nel tufo ad una profondità di circa 15 metri. Si compone di 48 pilastri a croce, con una forma perfettamente rettangolare di 70 x 25,50 metri. Questa cisterna veniva alimentata dall’acquedotto del Serino, che da Avellino riforniva d’acqua Pompei, Ercolano, Stabia, Napoli, per giungere infine a Capo Miseno, dove era ormeggiata la ‘Classis Praetoria’, la più importante flotta dell’Impero Romano.

L’uso delle cisterne è chiaro: accumulavano l’acqua piovana raccolta da porzioni di terreno adattati e protetti allo scopo o dalle superfici coperte di case e terrazze.

Le cisterne, alimentate dalla pioggia, avevano la funzione di stoccaggio. Le piogge non sono continue e l’accumulo dell’acqua rappresenta l’unica maniera per usufruire in modo continuativo dell’acqua che si accumula durante le precipitazioni, per loro natura discontinue.

I serbatoi invece, alimentati da fonti perenni, servivano ad accumulare acqua, in genere durante la notte, per far fronte agli alti consumi durante il giorno.  Come venisse valutato il volume dello stoccaggio è problema aperto di non facile soluzione. Per fare alcuni esempi, i serbatoi della Villa di Domiziano al Circeo potevano riempirsi, in base ad una valutazione approssimata della portata dell’acquedotto, in una decina di giorni: ciò indica chiaramente – e la localizzazione e la tipologia della Villa lo confermano – che la Villa veniva utilizzata periodicamente e per periodi di tempo limitati.  Al contrario i serbatoi delle Terme di Caracalla contenevano un  volume d’acqua che corrispondeva a 12 ore circa di afflusso dall’acquedotto; in questo caso le conserve furono progettate e calcolate per lo specifico uso termale: grande consumo durante il giorno, pari al doppio della portata dell’acquedotto e nessun consumo di notte, durante la quale i serbatoi potevano riempirsi.

Come regola generale sembra potersi affermare che le dimensioni dei serbatoi fossero inversamente proporzionale alla portata dell’acquedotto; più basse erano le portate più grandi erano le conserve, con possibilità di chiusure e aperture del flusso di distribuzione in conformità alle riserve disponibili e ai consumi. In zone agricole i serbatoi servivano anche per l’irrigazione durante le stagioni secche.

Per quanto riguarda le forme delle conserve, a prescindere dalla loro capacità, si tratta quasi sempre di gallerie, coperte a botte, comunicanti tra di loro con aperture arcuate.  Le gallerie comunicanti possono essere lunghe da pochi metri a molte decine di metri, mentre la larghezza di ogni singola galleria raramente supera i quattro metri.  Più gallerie appaiate aumentano evidentemente il volume.  Ne esistono comunque di quadrate o realizzate, come a Caracalla, con tante camere quadrangolari comunicanti tra loro.

Gli elementi più interessanti da prendere in considerazione per i serbatoi sono comunque gli scarichi di troppo pieno e i possibili allacci con la rete di distribuzione.

I ‘superi’ o scarichi di troppo pieno erano e sono una necessità tecnica inderogabile ed erano realizzati, nei sistemi normali e più semplici, con una apertura su una delle pareti. L’acqua, contenuta in una fistola di piombo, usciva dal serbatoio e, generalmente era dirottata verso altri usi o verso altri serbatoi di raccolta. In alcuni casi lo scarico di troppo pieno è realizzato con un’opera particolare che devia l’acqua in più in una galleria che passa sotto le conserve e raggiunge una utenza diversa da quella cui era destinato l’accumulo nei serbatoi.

Il collegamento tra i serbatoi e la rete di distribuzione era realizzato con un calice in bronzo o piombo saldato a un tubo sempre di piombo o bronzo e collegato a una chiave (saracinesca) in bronzo che permetteva la regolazione o la chiusura del flusso. Calice e tubo erano messi in opera direttamente nel muro con il quale erano pertanto solidali, impedendo qualsiasi perdita.

In alcuni casi, idraulicamente a monte dei serbatoi, venivano costruite delle ‘vasche limarie’ con lo scopo di far decantare eventuali elementi solidi in sospensione nell’acqua, funzione che poteva essere esercitata dagli stessi serbatoi con particolari accorgimenti.

La Cisterna-Basilica (Yerebatan Saray) di Istanbul (Costantinopoli) fu costruita da Costantino (274-337 d.C.) e ampliata da Giustiniano (a partire dal 532 d.C.). Con le sue acque, provenienti dagli acquedotti di Adriano e di Valente, alimentava le riserve del palazzo imperiale. I Romani scavarono una gigantesca buca profonda 25 metri e costruirono questa cisterna di 138 x 64 metri, con all’interno 336 colonne, a sostegno di piccole volte di mattoni a spina di pesce. È stata restaurata nel 1980.

Le capacità di queste cisterne erano di  migliaia di metri cubi d’acqua. Ma molte altre sono le cisterne note che servivano singole utenze (ville) o grandi e piccoli centri urbani e rurali.  Sui soli colli Albani, alle porte di Roma, in un’area dalla quale hanno origine alcuni degli acquedotti che raggiungevano Roma e nello stesso tempo vi era una diffusa e intensa attività agricola, sono segnalate centinaia di cisterne e serbatoi.

 

Leonardo Lombardi

[L’idraulica antica e la distribuzione dell’acqua. (2). Continua]

 

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