Racconti

Tra Napoli e Ponza, i paradisi dell’infanzia

di Silverio Tomeo

In un celebre scritto su Napoli, Benedetto Croce fa risalire al XIV secolo la nota definizione della città del golfo come  di “un paradiso abitato da diavoli”, definizione che anche Goethe riprese nel suo viaggio in Italia. Anni orsono, al ritorno da un viaggio in Olanda, l’aereo nell’atterrare a Fiumicino sorvolò a bassa quota nel sole il pulviscolo delle isole ponziane, il Circeo e la costa,  quando dall’alto apparve anche il massiccio del Vesuvio. Tutto il colore si divideva tra il verde della vegetazione e l’azzurro del Tirreno. Pensai che da lì provenivo, da quel vasto paradiso naturale, tra il ramo paterno dell’Irpinia e quello materno isolano. Passando da don Benedetto al padre del trascendentalismo americano Ralph  Waldo Emerson, secondo cui “la natura è amata da tutto quanto vi è di meglio in noi”, provo a condensare in pillole un suo lungo ragionamento. Troppo spesso gli uomini sono assai al di sotto della natura che li circonda. Eppure se sotto un tramonto appaiono figure umane di egual valore, si attinge più pienamente la bellezza del paesaggio e la stessa comprensione della natura e del suo mistero.

Quindi le lunghe estati dell’infanzia, sino alla prima giovinezza, erano per me ben divise tra una settimana a Napoli, dove nel dopoguerra si era insediato il ramo paterno, e un paio di mesi a Ponza,  nella casa di famiglia. Di diavoli non ricordo di averne mai visti, magari lo eravamo proprio noi da ragazzetti e non lo sapevamo, oppure erano tenuti ben lontani dalle figure familiari di riferimento. A Napoli il maternage delle numerose zie, i cuginetti coetanei e non, il nonno roccioso e protettivo, il latte pastorizzato in bottiglia, il ‘vico’ con i suoi rumori, e poi le lunghe passeggiate a S. Biagio dei librai ad acquistare i primi libri in edizione economica. Sull’isola “siamo tutti mezzi parenti”, mi dicevano, quindi cuginette e cugini a bizzeffe, e numerosi monelli con cui giocare e con cui pescare con la lenza al porto delle paranze. Poi con i familiari al Fieno, dove venni iniziato alle merende, al buon vino bianco, credo fosse la ‘biancolella’, di qualità delicata, simile ai vitigni di Ischia e di Capri. Poi dalle famiglie allargate si ritornava dopo l’estate a Lecce, e lì era un’altra storia; era la città aspra del Sud profondo, con un dialetto quasi messinese, asciutto, stretto.

Tra i ricordi c’è parecchio da scegliere. A partire dal viaggio dal molo Beverello, che lambiva Procida dai limoni giganti, che i barcaioli venivano a vendere sotto il vaporetto, e poi lo scoglio di S. Stefano, dove venivano accompagnati coi ferri ai polsi gli ergastolani silenziosi, e Ventotene dai fondali bassi. A Capri per alcuni anni fu semaforista uno zio, marittimo chef e magazziniere. Si fece Napoli, Capri e infine la sua isola, quando sulla Guardia c’era ancora la guarnigione con i marinai. Passammo da Capri a trovarlo, e tentai inutilmente di adottare un cagnolino bianco abbandonato.

Nel dopoguerra tra le bellezze del Pizzicato, tre su quattro, sposarono dei marinai, e sicuramente non soltanto loro, nell’isola. Mio padre era volontario nella Regia Marina, scampato nell’attacco al naviglio italiano alle Bocche di Bonifacio del 9 settembre del 1943. In quell’occasione i tedeschi affondarono la corazzata Roma, i cacciatorpedinieri  Di Noli e Vivaldi, e altri battelli, con circa duemila uomini che perirono in mare tra  sangue, olio e combustibile.

Mai visto se non in foto il nonno ponzese. Dopo due emigrazioni a New York, nel 1900 e nel 1905, ritornato sull’isola  cadde da un terrazzo del vicinato mentre era al lavoro; ma l’ospedale più vicino era a Napoli, allora sotto i bombardamenti dell’estate del ’43, e da allora dorme sulla collina della Madonna.  Nei primi anni ’90 conobbi  a Ponza due vecchi ragazzi emigrati in Canada che se lo ricordavano.

Ancora ragazzetto, vidi spopolarsi la zona del Pizzicato di monelli e di cugine. La guerra aveva segnato le famiglie. Un cugino di mia madre non era tornato dalla campagna di Russia. Una sua cugina era impazzita dopo un amore ostacolato con un soldato. Una mia zia  si era sposata con uno della milizia fascista che alla smobilitazione e dopo avergli fatto mettere al mondo tre figli, andò a Napoli a comprare le sigarette e non fece ritorno. Forse era andato a morire per la repubblichina di Salò? La famiglia  ne parlava in modo pudico, si diceva fosse morto per tubercolosi, pochi anni dopo l’abbandono. Insomma: era proprio uno scuorno… Poi se ne andarono a New York anche loro, la zia con la prole, i mariti delle figlie e la rispettiva figliolanza. La nonna invecchiava, la ricordo ad aspettarci al molo. Ogni estate io e mio fratello ci beccavamo una strana febbre per “il cambiamento d’aria”, non appena arrivati. Una volta chiamarono, per un inizio di insolazione, una vecchiarella che mi tolse il malocchio (all’uocchie sicche), facendo gocciolare l’olio nella bacinella d’acqua mentre recitava strane formule religiose. Ebbe un buon effetto terapeutico, comunque.

Sono tante le storie di famiglia. Da ragazzetto fui messo una volta a guardia della bella cugina appena fidanzata con un gagliardo motorista di paranza, usufruendo così  di numerosi spiccioli per gelati e caramelle, purchè mi allontanassi dai loro focosi palpeggiamenti e baci. Il marinaio di paranza aveva una bella famiglia a Santa Maria, e per farsi benvolere portava borsoni di pesce fresco. In più gli inviti dai suoi, dove una volta si mangiò uno spezzatino di testuggine marina, e dove giocavo tra i vecchi bastimenti a secco sulla spiaggia ghiaiosa, messi lì ad evocare favolosi viaggi. Alcuni riti estivi li osservavo, anche la battitura del grano e la cernita, anche la vendemmia e la pigiatura delle uve, i conigli da mangiare nelle festività, il porco della prozia da nutrire. Lo zio marittimo, che tornò a vivere a  Ponza, si munì di un’asina bellissima e intelligente, che rispondeva ai suoi richiami, si curò le catene di vigneto e una grotta-cantina al Fieno, oltre che l’orto e le vigne sopra casa.

Nell’infanzia ponzese la tristezza era il ritornare dove mi toccava crescere. Ed era tutta una gara d’affetto tra il ramo napoletano e quello ponzese. Il ramo inurbato a Napoli visse la sua difficile evoluzione, e ora la filmografia d’epoca e la letteratura napoletana mi aiutano a ricostruire  il clima umano della città del golfo negli anni ’50 e ’60 del secolo scorso. Qualche volta feci i bagni nel mare di Posillipo, tra le palafitte in legno, con la sabbia nera vulcanica, e riuscii a buscarmi un brutto bruciore agli occhi… Ma era il mare di Chiaia di Luna meglio indicato al nuoto, e anche per le prime piccole imprese di caccia subacquea, quando i fondali erano ancora come un acquario di meraviglie, e l’isola non era ancora diventata Turistisland.

Silverio Tomeo

 

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