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Fari e ricordi (2). Quando Zannone era in fitto ai Casati

di Enzo Di Fazio

 

“Tato’, Franci’, saglite,  veniteve ‘a piglià u’ccafè,
e purtate pure ‘i criature, ca zi Alena a’ fatte ‘i nucchette”

Silverio, soprannominato  ‘U Spadone’, dal parapetto prospiciente la zona dei ruderi del Monastero Benedettino, si preannunciava attraverso la tofa con due-tre prolungate e poderose soffiate.

Quindi, amplificando la voce con un grosso megafono, chiamava a raccolta i fanalisti invitandoli a salire per condividere con loro quattro chiacchiere, immersi nella frescura del cortile della bella villa costruita dai Casati. Era quella anche l’occasione per gustare un fresco bicchiere di vino (‘di bumbazza’ come diceva Silverio) un fumante caffè tra una partita a tressette e una a ‘maniglia’ (un misto tra tressette e briscola).

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(Zannone – Silverio Iodice, il guardiano e Totonno, il fanalista)

Eravamo in genere agli inizi dell’estate e “sul Convento” fervevano i preparativi per rendere  come nuovi i già accoglienti locali che di lì a qualche settimana avrebbero dato ospitalità al marchese Casati, alla “famosa” moglie Anna Fallarino e al folto gruppo di  amici, primo fra tutti il conte Marzotto.

Siamo intorno agli anni ’60, periodo in cui l’intera isola, eccezion fatta per la zona del faro, era in fitto, come riserva di caccia, al marchese Camillo Casati Stampa di Soncino.

E rimarrà tale fino al triste epilogo della sera del 30 agosto 1970.

Quella notte a Roma il “nobiluomo” decise di porre fine alla sua ambigua vita uccidendo, con uno degli inseparabili fucili da caccia, prima la moglie ed il suo giovane amante resisi responsabili di essere inciampati in una passione vera (dopo essere stati a lungo strumenti consenzienti delle sue ossessioni erotiche), e poi, sé stesso.

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(Anna Fallarino e il marchese Camillo Casati Stampa)

L’episodio sconvolse non solo la vita mondana dell’epoca e quella isolana, data la notorietà dei personaggi, ma anche  la tranquillità della famiglia del custode  Silverio che dopo qualche mese si sarebbe trovato senza occupazione.

In effetti attendevano alla cura e alla manutenzione della villa non solo  Silverio ma praticamente tutta la famiglia, composta da Lilina e Maria, rispettivamente moglie e cognata, dai figli  Alfonsino e Rosario e da donna Elena (zi’ Alena), madre di Lilina. Sporadicamente collaboravano anche il cognato Peppe e la moglie.

Zi’ Alena, sempre sorridente, era un personaggio, per la sua cordialità, amato da tutti, ma soprattutto dai noi figli di fanalisti oltre che, ovviamente, dai nipoti.

Perché volevamo bene a zi’ Alena?

Bene impostata nella  prestanza  fisica dei suoi  75/80 chili, per nulla ammorbiditi dal candore di un inseparabile camice bianco, zi’ Alena era non solo la cuoca della casa ma anche la custode della ricca dispensa.

E c’era in quella dispensa, tra scatole di pomodoro e di salsa, barattoloni di tonno, pacchi di pasta e “lattine” di olio,  un’autentica leccornia che faceva impazzire noi ragazzi: la marmellata di amarene “Fabbri”, quella con le amarene intere.

Abituati a far colazione con pane e pomodoro, la pregustazione di una bella fetta di pane, burro e marmellata era una più che  buona motivazione per intraprendere la fatica che comunque la salita, dal faro verso il convento, comportava.

La traversata del bosco verso il Convento

L’ora dello spostamento coincideva, in effetti – dovendo i fanalisti tornare giù prima di sera – con quella canonica della “controra” e la calura nei tratti non ombreggiati dalle piante del bosco fiaccava le gambe e appesantiva il viaggio.

Ai piedi portavamo dei sandali “francescani”. Le mamme, prima d’incamminarci, ci facevano indossare dei calzini che ci avrebbero protetto dal sudore spesso causa di fastidiose vesciche.

Il percorso, quantunque faticoso, si sgranava attraverso un succedersi di piacevoli visioni e, a tratti, inaspettate sorprese.

Già all’inizio, passando sotto il grosso albero di fichi collocato appena dopo il cortile ed a fianco dei primi scalini, ci fermavamo a cogliere “i primme fiche”, invitati dalle  crepe della  buccia e dalla intensa colorazione violacea dei frutti.

Ancora qualche gradino e subito si apriva  il sentiero che, tutto in salita, ci avrebbe portato alla sommità dell’isola fino a scollinare Monte Pellegrino.

Nella prima parte, la strada si presentava bene impostata, grazie al compatto basamento fatto di pietre regolari  ben levigate.

Tale percorso, attraverso una serie di tornanti che fiancheggiavano la collina, ci conduceva già ad un’altezza di una cinquantina di metri sul livello del mare.

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(Zannone, vista dalla strada che porta al convento)

Lasciandoci alle spalle il faro lo sguardo  veniva catturato, già appena dopo l’albero di fico, dalla tavolozza di colori del tratto di mare che dalla “preta” si stendeva fino allo “scoglio del mariuolo”.

Man mano che si saliva, prendeva sempre più corpo il profumo intenso dell’elicriso in fiore aggrappato agli scogli, così come andava a delinearsi la progressione dei colori del mare che da azzurro turchese diventava blu cobalto là dove, sotto “i fenestune”, l’occhio non percepiva più, data la profondità, la presenza di una diversità fatta di poseidonia o di secche.

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(trasparenze a Zannone)

Salendo ancora,  l’elicriso dava posto ai ciuffi di lentisco, di mirto (‘a murtella) e di erica arborea modellata dal vento.

La presenza copiosa di fiori bianchi sulla pianta di mirto e l’apparizione delle prime bacche di colore rossastro ci davano conferma delle consegne che la primavera aveva fatto all’estate predisponendo il frutto alla maturazione completa in autunno avanzato.

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(fiori di mirto)

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(bacche di lentisco)

Epoca in cui il mirto si sarebbe offerto alla raccolta delle bacche per farne il liquore e, approssimandosi la vendemmia,  si sarebbe sacrificato  con il taglio dei rami più piccoli destinati, ancora odorosi e  stretti in un cordone di strame, al lavaggio delle botti e dei palmenti.

Finito il percorso  assolato ci immergevamo, accompagnati dal  tedioso canto delle cicale,  nella frescura ombrosa del bosco di lecci.

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(il mare di Zannone attraverso il bosco di lecci)

Lì riuscivamo a percepire anche la brezza  che, risalendo dal mare e facendosi strada attraverso il fitto fogliame, andava ad esaltare le essenze del sottobosco ed il profumo delle rare ginestre.

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(fiori di ginestra spinosa)

Il viaggio diventava gradevole, la salita non pesava.

Gli occhi erano tesi ed attenti ad incrociare, invano,  le prime “sorve pelose”, il caratteristico frutto autunnale  del corbezzolo, pianta di tanto in tanto presente a far bella mostra di sé tra i robusti  lecci e i pungenti ginepri.

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(corbezzolo)

L’ultimo tratto prima di arrivare in vetta era quello più duro.

La normalità del sentiero si interrompeva bruscamente portandoci quasi a pensare  d’aver sbagliato percorso.

Ci  trovavamo  a superare un improvviso dislivello di una decina di metri fatto di roccia misto a terra e radici.

Era il momento  di prendere fiato ed organizzare, soprattutto noi più piccoli,   forze e movimenti.

A guardar bene c’erano appigli e scalini ad agevolarci l’ascesa. Sotto la guida dei “grandi” e la spinta della punta dei piedi superavamo, senza farci distrarre dall’indecifrabilità del bosco sottostante, quel tratto quasi in apnea, come a voler sacrificare anche il fiato in favore della sicurezza del corpo.

A quel punto il bosco si diradava ed i lecci davano posto a colonie di cisto ed euforbie , i cosiddetti “cecauocchie” fastidiosi , se divelti, per la fuoriuscita di un lattice appiccicoso ed urticante.

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(fiori di cisto)

Eravamo in vetta; d’improvviso ci eravamo avvicinati a Ponza venendo dalla profondità del faro.

L’isola madre era bella lì, di fronte a noi,  allungata e protettiva quantunque mezza  addormentata sotto il velo della “controra”.

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(vista aerea di Ponza…. un po’ come vederla da Zannone)

Tutt’intorno a noi la macchia  disordinata e giù sulla sinistra in canaloni inaccessibili  il verde intenso del fitto bosco di lecci.

Non sentivamo ormai più il suolo sotto di noi, alleggerito com’era dalla dolcezza della discesa che, di lì a qualche decina di metri,  ci avrebbe condotto ai ruderi del Convento e, quindi, alla casa.

Una presa di fiato e via, accompagnati dal perenne canto delle cicale, verso un fresco bicchiere di “Idrolitina”,  ‘i nucchette  ‘i zi’ Alena e, soprattutto… l’agognata marmellata di amarene.

(2. continua)

Enzo Di Fazio

Marzo 2011